Tra Sacro e Profano

TRA SACRO E PROFANO –  A futura memoria un’iniziativa che merita il plauso, perché ogni attimo della vita meriterebbe di essere fissato, se non da mezzi tecnici, da un attimo di consapevolezza. É il modo per sottrarlo al tempo e viverlo nel migliore dei modi. Perché ogni momento è singolare, irripetibile, ed anche se dovesse ripresentarsi, si ripresenterebbe con altre caratteristiche, altri soggetti. É stato detto che il tempo procede a spirale, impasta tutto, ma non potrà mai riproporre quanto appartiene al passato. E con le stesse modalità. La foto ha, in fondo, qualcosa di magico, e magiche dovettero apparire ai primi fruitori le immagini che riuscivano a duplicare le fattezze di una persona, un paesaggio, un evento.

Quasi cento settanta anni sono trascorsi dall’invenzione del dagherrotipo che ha sostituito il ritratto e molte sono state le dispute sulla differenza tra i due mezzi per riprodurre la realtà. Si sono tirate in ballo l’obiettività, l’interpretazione, la fedeltà al soggetto raffigurato. Ora ci troviamo in un passaggio nuovo tra la fotografia tradizionale e quella digitale, che può essere più manipolata. E non mancano polemiche tra i sostenitori delle due tecniche. A me sembra che la fotografia digitale, per quel poco che ne possa dire – non sono un’esperta – segue la vita, non vuole mollarla, vorrebbe duplicarla attimo per attimo, operando una vera e propria selezione.

Mi fa pensare, per quelle associazioni di pensieri che vengono improvvise, alla clonazione che tende a riprodurre il meglio e scarta ciò  che non è perfetto. E si inserisce nella smania di fotografare la realtà, di duplicarla. Un bisogno quasi morboso di vivere attraverso l’immagine, di vedersi vivere, di sdoppiarsi, quasi, il Grande Fratello ci rivela come la visibilità sia lo scotto da pagare alla privacy. C’è un’inflazione dell’immagine. Tanto più sei visibile, tanto più vali. Tanto più ti esponi, tanto più vivi. Tanto più entri nelle case degli altri, nella vita degli altri, nell’immaginario degli altri, tanto più ti moltiplichi. Tanto più sopravvivi. Sembra questo il motto del nostro tempo. É un’esigenza che nasconde la paura dell’ombra, dell’anonimato, della vecchiaia, della fine.

L’iniziativa di questa mostra non s’inserisce nel contesto cui ho accennato. L’esigenza è diversa. Nasce dalla devozione, dalla tradizione e lo scopo è quello di tramandare un evento attraverso l’immagine.  La foto fa sì che non si perda memoria di un evento e, oggettivandolo, consente a ciascuno di noi di prenderne le distanze e cogliere il senso integralmente.

A ragione, Giuseppe Cacioppo nella prefazione, sottolinea il ruolo della fotografia come capacità di rendere eterno l’attimo, di sottrarlo al tempo e trasmetterlo immutato ai posteri.

É questo il senso del catalogo: fermare il tempo, cristallizzarlo, riproporlo. Il presente, fissato dall’obiettivo, si proietta nel futuro, diventando passato e annullando il confine tra ieri, oggi e domani. L’immagine ha una forza straordinaria, riesce a dire più del linguaggio, ad imporsi al di là di qualsiasi discorso, in modo immediato, perentorio. Penso alle immagini circolate recentemente sulla tortura inflitta agli Iracheni da parte dei soldati americani. Sono state più forti di qualsiasi denuncia verbale. Hanno dato la possibilità a ciascuno  di noi di specchiarci nell’orrore della guerra, di cogliere la parte bestiale che si nasconde dietro l’apparenza. La donna soldato che tiene al guinzaglio un iracheno potrebbe essere scelto come il manifesto più eloquente contro la guerra.

Ma il ruolo della fotografia è anche quello di selezionare, scegliere fra tante possibilità. Tra l’orrore e la bellezza. Tra la bestialità e l’umanità.

La scelta degli organizzatori della mostra è caduta sul tema “sacro e profano”, su quel sottile confine che distingue fede e folclore.

Non è facile coglierlo. La festa popolare è un caeidoscopio nel quale si confondono elementi diversi: tradizione, devozione, folclore. In essa, ciascuno, secondo la propria cultura, la propria formazione, il proprio sentire, può ritrovare ciò che gli è più congeniale. E non è neanche facile per chi la gestisce – e mi riferisco agli ecclesiastici – scartare dalla festa quanto di squisitamente profano si tramanda, allo scopo di convogliare la devozione nel solo canale religioso. La festa, oltre che ad un bisogno spirituale, obbedisce ad un’esigenza fisica, se così si può dire, d’euforia, di libertà.

Consente di entrare in relazione con gli altri, di condividere momenti d’entusiasmo, di calore, di uscire dalla solitudine e da quei rigidi schemi in cui il siciliano, è confinato.

Scriveva Sciascia che “la festa è, innanzi tutto, una esplosione esistenziale; l’esplosione dell’es collettivo, in un paese dove la collettività esiste soltanto a livello dell’es. Poiché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di uomo solo, che è poi la condizione del suo vigile e doloroso super – io, per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città”.

La festa è magia. É sogno. É illusione. É lasciarsi dietro il grigiore della quotidianità, per entrare in un’altra dimensione. Tutto contribuisce a creare l’atmosfera: le luminarie, la banda musicale, le corse dei cavalli, le majorettes. La festa è anche trasgressione e mi riferisco ai ragazzi, liberi di circolare tutta la notte senza essere controllati dai genitori. É un modo per umanizzare la divinità, per sentirne il contatto. Per farsi sentire. Non per niente si fa riferimento all’Udienza. Maria dal suo piedistallo, scende al livello umano, si mescola alla folla, gioisce con la folla, cammina per le strade della vita e ascolta, dà udienza, approva, benedice, comprende.

E non può non comprendere anche che la festa non è solo per Lei.É anche per gli altri, per alleviare la fatica esistenziale, per uscire dalla quotidianità. É un viaggio metaforico, quello di Maria Santissima, un viaggio nella gioia di chi conosce bene il dolore. Non c’è spazio per altro. La sofferenza verrà domani, all’alba, verrà quando Lei ritornerà nella sua nicchia, quando si chiuderà il sipario, si spegneranno le luci e la strada resterà nuda come prima e ciascuno di noi rimarrà solo, ad affrontare la quotidianità, il peso della vita.

Il catalogo con le foto di Franco Alloro ripropone il caleidoscopio della festa con i momenti più significativi, a partire da quella bellissima immagine riprodotta nel manifesto che raffigura la Vergine e il Bambino ripresi dall’alto in una posa di dolce abbandono. Un invito, per ciascuno, ad abbandonarsi alla volontà di Dio.

Cardillo Prof.ssa Licia in Di Prima


IMMAGINI DELLA MOSTRA

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