SANDRO VERONESI – Caos calmo

UN GIORNO, MENTRE SALVA LA VITA A UNA SCONOSCIUTA,
PIETRO PALADINI PERDE LA MOGLIE, E
TUTTO CAMBIA. INIZIA PER LUI UN PERCORSO DI
ELABORAZIONE CHE LO PORTA A RIFUGIARSI NELLA
SUA AUTO, DAVANTI ALLA SCUOLA DELLA FIGLIA.
OSSERVANDO IL MONDO DAL PUNTO IN CUI S’É
INCHIODATO, SCOPRE A POCO A POCO IL LATO
OSCURO DEGLI ALTRI. UN’OPERA DI GRANDE MATURITÁ
ESPRESSIVA, CHE SI AVVOLGE ATTORNO AL NOCCIOLO
DURO DI UN’UMANITÁ CHE PATISCE FINO ALLO
SPASIMO, E CHE DINANZI ALLA QUIETE SI MERAVIGLIA.


Prima parte

 

La! – dico.
Abbiamo appena fatto surf, io e Carlo. Surf: come
vent’anni fa. Ci siamo fatti prestare le tavole da due pischelli
e ci siamo buttati tra le onde alte, lunghe, così insolite
nel Tirreno che ha bagnato ruttala nostra vita. Carlo
più aggressivo e spericolato, ululante, tatuato, obsoleto,
col capello lungo al vento e l’orecchino che sbrilluccicava
al sole; io più prudente e solista, più diligente e controllato,
più mimetizzato, come sempre. La sua famigerata classe
beat e il mio vecchio understatement su due tavole che
filavano al sole, e i nostri due mondi che tornavano a duellare
come ai tempi dei formidabili scazzi giovanili – ribellione
contro avversione -, quando volavano le sedie, mica
scherzi. Non che si sia dato spettacolo, visto che è già
tanto se siamo riusciti a non cadere dalle tavole; o meglio:
abbiamo dato lo spettacolo di chi è stato giovane anche
lui, e per un breve periodo ha creduto che certe forze potessero
veramente prevalere, e in quel periodo ha imparato
a fare un sacco di cose che in seguito si sono rivelate
sovranamente inutili, tipo suonare le congas, o rotolare
una moneta tra le dita come David Hemmings in Blow Up,
o rallentare il battito cardiaco per simulare un attacco
di bradicardia e venire riformati al servizio militare, o

ballare lo ska, o rollare le canne con una mano sola, o tirare
con l’arco, o la meditazione trascendentale, o, per l’appunto,
il surf. I due pischelli non potevano capire, Lara e
Claudia erano già tornate a casa. Nina 2004 è partita
stamattina presto (Carlo cambia fidanzata ogni anno, e così
io e Lara abbiamo cominciato a millesimale): non c’era
nessuno a goderselo, è stato uno spettacolo tra noi due,
uno di quei giochi che hanno senso solo tra fratelli, perché
un fratello è il testimone di un’inviolabilità che da un
certo momento il poi nessun altro è disposto a
riconoscerti.
– La! – dico all’improvviso.

[…] […]

– La! – dico all’improvviso, indicando un gruppo di
persone molto agitate, un centinaio di metri sopravvento.
Ci alziamo di scatto, i muscoli ancora caldi per la lunga
cavalcata tra le onde, e ci dirigiamo di corsa verso quella
piccola folla. Lasciando lì i telefonini, occhiali, soldi, tutto:
improvvisamente non esiste più nient’altro che quel crocchio
e quelle grida. Si fanno senza pensare, certe cose.
Il tempo che segue è una specie di fulminea sequenza
medianica, senza altra sensazione che quella di essere tutt’uno
con mio fratello: le domande su cosa sia successo, il
vecchio esanime sul bagnasciuga, l’uomo dai capelli biondi
che cerca di rianimarlo, la disperazione di due bambini
che gridano “Mamma!”, i volti smarriti delle persone che
indicano il mare, le due testoline perse tra le onde, e nessuno
che agisce. In quella stasi frenetica si staglia lo sguardo
azzurro di Carlo, intenso, carico di una formidabile
energia cinetica: quello sguardo dice che per qualche
indiscutibile ragione tocca a noi andare a salvare quei due
poveretti, e che in realtà è come se l’avessimo già fatto, sì,
è come se fosse tutto finito, e noi due fratelli fossimo
già gli eroi di quella marmaglia di sconosciuti, perché siamo
creature acquatiche straordinarie, noi, siamo tritoni, e
per salvare vite umane possiamo domare le onde con la
stessa naturalezza con cui le abbiamo domate per divertirci
sulle tavole da surf, e lì attorno altra gente in grado di farlo non ce n’è.

Entriamo in acqua correndo, e ci trasciniamo fin dove
frangono le prime onde. Lì ci imbattiamo in uno strano uomo,
allampanato e rosso di capelli, intento a gettare
goffamente verso il largo una cima cortissima, mentre ile
persone da salvare distano perlomeno trenta metri. Gli
passiamo accanto di slancio, lui ci guarda con occhi che non
dimenticherò mai – gli occhi di chi lascia morire la
gente – e con voce vigliacca, degna di quegli occhi, tenta
di dissuaderci: “Non andate”, sibila, “Rischiate di rimanerci
anche voi”. “Ma vaffanculo”, è la risposta di Carlo
un attimo prima di tuffarsi sotto un’onda e cominciare a
nuotare. Io faccio altrettanto, e, nuotando, vedo in controluce
le ombre nere dei muggini filare orizzontalmente
lungo il muro verde che si forma ogni volta che un’onda si
alza per poi schiantarsi sopra di me: quei pesci fanno il
surf, si divertono, come noi pochi minuti fa.
Viste dalla riva le due teste parevano vicine tra loro, ma
in realtà sono abbastanza distanti, tanto che a un certo
punto io e Carlo dobbiamo separarci: gli faccio cenno di
piegare verso quella di destra, mentre io mi butterò su
quella di sinistra. Di nuovo mi guarda, sorridendo, poi
annuisce, e di nuovo mi sento invincibile; entrambi ripartiamo
con forza.
Quando sono abbastanza vicino mi accorgo che si tratta

di una donna. Ripenso ai due bambini disperati sulla
riva: “Mamma!”. La testa sparisce sott’acqua e ricompare
secondo un’imperscrutabile combinazione di forze cui
la donna pare ormai del tutto estranea. Le grido di tenere
duro e rinforzo le bracciate, mentre una corrente molto
forte cerca di trascinarmi da un’altra parte. Quella donna
è finita nel bel mezzo di un vortice. Arrivato a un paio di
metri da lei comincio a distinguere i suoi lineamenti forti,
il naso un po’ schiacciato, alla Julie Christie, ma soprattutto
il velo di puro terrore che le è calato sugli occhi: è allo
stremo, non riesce neanche a gridare, riesce soltanto a
singhiozzare. Le ultime bracciate le faccio a rana, e la raggiungo.
Dalle profondità del suo corpo proviene una specie
di sinistro gorgoglio, come di lavandino intasato.
– Stia tranquilla, signora – le dico – adesso la porto a ri–
Fulmineamente, quasi vi si fosse preparata con cura, la donna
mi pianta le mani nell’incavo delle clavicole e mi immerge
sott’acqua con tutte le sue forze. Sorpreso a mezza frase,
bevo, poi riaffioro con una certa difficoltà, tossendo.
– Calma – dico – non mi affonda–
Di nuovo la donna mi spinge sott’acqua senza farmi finire
la frase, e di nuovo mi ritrovo a bere e a faticare per
riaffiorare e ritrovare il respiro. Subito lei tenta di
ricacciarmi giù, e io devo divincolarmi per sfuggire alla presa.
Le sue unghie, per trattenermi, mi graffiano a sangue sul
petto, facendomi un gran male. Boccheggiante, scorticato,
faccio due bracciate all’indietro; e tutta la mia forza,
quella meravigliosa sensazione di inviolabilità con la quale
sono partito da riva, è già sparita.
– Non lasciarmi! – gorgoglia la donna – Non Lasciarmi!
– Signora – dico, tenendomi a distanza – Così non si fa
nulla! Stia calma!
Ma per tutta risposta quella sparisce sott’acqua e non

riemerge più. Cazzo. Mi immergo per riprenderla, riesco
ad afferrarla per i capelli mentre va giù come un macigno,
poi la prendo per le ascelle e la riporto su, lottando contro
la corrente che tira verso il basso. É pesantissima. Quando
riemergo ho i polmoni sul punto di scoppiare, ma perlomeno
la donna mi lascia il tempo di respirare un paio di
volte prima di ricominciare ad affondarmi.
– Non lasciarmi! – daccapo
Svento un suo nuovo tentativo di ricacciarmi sotto
anticipandolo con un colpo di reni. Ormai non mi prende
più di sorpresa, e almeno non bevo, ma sto sprecando
tutte le forze per impedirle di uccidermi, non va affatto bene.
– Non lasciarmi!
– Non la lascio no! – grido – Però lei lasci me! Sennò
qui affoghiamo tutti e d–
Niente, ormai è chiaro che quella donna non vuole
essere salvata, vuole soltanto che qualcuno muoia insieme a
Lei. Ma io non voglio morire, penso. Io amo la vita. Ho
una donna e una figlia che mi aspettano a casa<. Devo sposarmi
tra cinque giorni. Ho quarantatré anni, ho il mio lavoro:
maledizione, non posso morire…

 

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