Giuseppe Sparacino – Tutto per una “S”


PRESENTAZIONE
PREFAZIONE
PRIMA INFANZIA
NEL PAESE DOVE SONO NATO
SEDI SCHIENA E MALIPATIPANZA
MIA MADRE
IL LAMENTO NOTTURNO DEL CUCULO
LA SCUOLA
ADRAGNA
I MIEI PICCOLI SOGNI
MANOVALE A DODICI ANNI
IL PRIMO AMORE
LE PRIME ESPERIENZE SESSUALI
 

La “S” del titolo è una “S” davvero importante! È la lettera per cui la parola “oggetto” diventa “soggetto”. È la logica conclusione e anche la premessa necessaria e fondamentale delle memorie di Giuseppe Sparacino. Una vita “esemplare” la sua: nato a Sambuca di Sicilia, in Sicilia, Giuseppe emigra a Prato a sedici anni per cercare lavoro; ritorna nel paese natale per il servizio militare prima e poi per aiutare i genitori dopo la scomparsa di un fratello muratore, morto per incidente sul lavoro. La sua integrazione con il paese siciliano è totale, come segnalano queste memorie piene della vita e della cultura locale, come le espressioni (le volte che il padre tentava di riposarsi, ala madre gli diceva: “sedi schiena e malipatipanza”, riposa schiena e patisci la pancia), i cibi, la mentalità (tutte le volte che il padre usciva di casa, puliva scrupolosamente le scarpe, magari anche con il nero fumo della padella) che ne fanno anche un prezioso testo di antropologia; e come pure segnala il fatto che divenne il segretario della locale sezione del PCI, alla testa delle lotte per i diritti dei braccianti.
A ventiquattro anni Giuseppe torna definitivamente a Prato, dove comincia a  lavorare come operaio tessile. Nella città toscana continua l’attività di impegno nel partito e nel sindacato; diventa consigliere del Comune di Prato e poi dal 1985 al 1995, sindaco di Cantagallo e presidente della Comunità montana.
Quando dalla fine del libro cerca di trarre una conclusione, Sparacino fa una affermazione importante: «Se vado in Sicilia mi sento mezzo toscano, e se sono in Toscana mi sento mezzo siciliano» e «’Un sacciu cchiù soccu sugnu»: a volte pensa che non bisognerebbe mai emigrare; ma alla fine ciò che conta nella vita è e rimane quella “S”, quella piccola lettera che però cambia il destino di un uomo.

Il libro di Giuseppe Sparacino è stato scelto dalla giuria del Premio LiberEtà,
promosso dalla rivista dello Spi Cgil in collaborazione con la
Fondazione Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano,
in occasione dell’edizione 2003 del concorso


 

In copertina:
Giuseppe Sparacino
ritratto nel maggio del 1943,
all’età di tre mesi,
in braccio alla madre Paola Riggio.

Dedica :
A Giulio e Pietro
i fiori oltre la vita


PRESENTAZIONE

La pubblicazione di questo libro rappresenta il positivo esito di alcune scommesse.
La più impegnativa è quella dell’autore, Giuseppe Sparacino, e, su questa, non aggiungiamo nulla a quanto espresso con straordinaria intensità nel suo racconto e negli esaurienti contributi pubblicati a commento dell’opera.
La scommessa su cui vogliamo richiamare l’attenzione riguarda invece quella della cornice in cui quest’opera si è collocata: il Premio LiberEtà-Archivio diacritico Pieve Santo Stefano “per una vita di lavoro e d’impegno sociale”.
L’autobiografia di Sparacino, Tutto per una “S”, è stata selezionata tra le opere finaliste dell’edizione 2003 ed è, indubbiamente, tra le storie più belle che abbiamo avuto il piacere di leggere in veste di giuria del concorso. Questo premio, che è ormai giunto quest’anno alla sua settima edizione, è nato dalla collaborazione tra la nostra rivista mensile LiberEtà e l’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano, fondato da Saverio Tutino.
L finalità del concorso consiste nella ricerca e nella tutela di memorie del mondo del lavoro. Un mondo del lavoro che rischia di scomparire nella percezione collettiva, e che invece viene rievocato e valorizzato dalle testimonianze dei tanti uomini e donne, che si sono impegnati nelle lotte per la conquista di dignità e diritti nel lavoro, che hanno speso le loro energie e le loro intelligenze per costruire una migliore prospettiva di crescita civile e sociale.

L’altra scommessa, che possiamo considerare come vinta, riguarda il contesto in cui il libro viene pubblicato. Si tratta della collana speciale di LiberEtà che edita e diffonde, accanto ai testi dei vincitori, le opere più significative pervenute attraverso il Premio. Si tratta di un progetto-obiettivo che in questi anni abbiamo perseguito con pazienza e tenacia raggiungendo il numero di ben… dieci pubblicazioni. E questo sforzo editoriale è stato portato avanti perché siamo fermamente convinti che aumentare la conoscenza del patrimonio che questi diaristi “speciali” ci affidano, rappresenti per tutti noi, nello stesso tempo, una opportunità da cogliere e un dovere da assolvere.
Nell’edizione 2003 la giuria ha voluto segnalare l’interesse per quest’opera; la casa editrice ha accolto la proposta con la sua pubblicazione; il Sindacato dei pensionati di Prato, con il contributo dello Spirito della Toscana, ha inteso rafforzare, con la presentazione, una discussione sulla propria memoria collettiva di comunità operaia che ha saputo aprirsi agli apporti di tante e diverse esperienze e provenienze.
Ma la scommessa ancora tutta da giocare è quella rappresentata dal consenso che questo libro incontrerà. Noi siamo convinti che meriti un successo e, sinceramente, ce lo auguriamo.
La conferma verrà misurata sia dal livello di diffusione, la quantità di lettori e lettrici che saranno interessati alla sua lettura, sia anche dalla qualità della riflessione che saprà suscitare su quelle grandi questioni che la storia di un “mezzo siciliano e mezzo toscano” ci propone.
Una riflessione quanto mai necessaria per dotare la nostra comunità, nazionale e internazionale, di maggiore comprensione e solidarietà per i migranti di tutte le epoche e di tutte le terre e per cogliere appieno il valore dell’integrazione e della conoscenza fra diverse culture.

Anna Buti
Segretaria generale
Spi Cgil Prato

Alba Orti
Progetto memoria
Spi Cgil


PREFAZIONE

Leggendo il libro Tutto per una “S” di Giuseppe Sparacino, si penetra una una storia di vita carica di esperienze umane amaro-dolci e tematiche socio-culturali che vanno al di là del percorso individuale, per intrecciarsi con avvenimenti caratterizzanti l’ultimo scorcio del XX secolo.
Passando al setaccio stralci del suo vissuto, meditando e riflettendo, Giuseppe, riesce a mettere in risalto quanto il suo modo di guardare il mondo e di concepire la natura umana sia diventato via via più attento e sensibile. Mai, però, nel corso degli anni, ha accantonato e rinnegato i propri ideali, nemmeno quando vicende particolarmente dolorose avrebbero potuto spezzarli e “piegarli come giunchi” in balia di venti tempestosi.
Nato in Sicilia, consapevole già dall’adolescenza dello stato di miseria e di abbandono in cui vivevano i suoi conterranei e la sua stessa famiglia, ha scelto la dura strada dell’emigrazione per cercare, come milioni di altri italiani, l’opportunità che gli permettesse di conquistarsi una dignità propria.
Il destino, che tesse trame invisibili, lo porta in Toscana: da Sambuca a Prato, dove lo attende una realtà diversa. Questa nuova realtà lo coinvolge a tal punto che decide di restare per dare ai suoi sogni di uomo e ai suoi ideali politici l’occasione di concretizzarsi.
A Prato, così come aveva fatto nel paese natio, si impegna in tutto quello che fa e la sua costanza, la forza di volontà, i sani princìpi morali lo portano, in breve tempo, a essere chiamato ad assumere ruoli di primaria importanza nella vita politica della città, fino a ricoprire cariche di vari assessorati, diventare sindaco del comune di Cantagallo e presidente della Comunità montana Val di Bisanzio.
Il suo è un impegno continuo per realizzare iniziative e opere utili alla collettività, è l’occasione per tradurre in realtà progetti maturati negli anni vissuti a Sambuca, quando, adolescente, era testimone di soprusi senza avere la possibilità di agire per rompere quel cerchio ossessivo di miseria, che allora come ora, martorizza i paesi più poveri, costringendo esseri umani ad abbandonare la propria terra oppure, a rimanere e vendere la propria dignità in cambio di un “posto” di lavoro.
Sul tema dell’emigrazione (purtroppo ancora attuale, con risvolti diversi), sono presenti, in Tutto per una “S”, passi permeati di una sensibilità e verità che solo chi, come lui, ha vissuto un simile dramma può intuire fino in fondo, ma sono tanti altri i sentimenti provati che affiorano, con vigore, dalla narrazione di particolari eventi: il dolore per la perdita, in modo tragico e improvviso, di persone care; l’emozione dell’amore, la gioia di condividere amicizie sincere, delusioni e scoramenti; entusiasmo per nuove conquiste sociali.
In diverse pagine si trovano riflessioni molto acute sui modelli sociali contemporanei e sui comportamenti dell’uomo;

Nicoletta Corsalini
Presidente dell’Associazione culturale
pratese “Il Castello”


PRIMA INFANZIA

Via Schioppettieri e via Progresso erano due tratti di strada che percorrevo quasi tutte le mattine per andare dagli zii materni che abitavano nel Vicolo Viviano, a poche centinaia di metri dalla nostra abitazione; o, per meglio dire, dalla casa dove abitavamo.
Fu una di queste mattine, avevo circa sette anni, che nel tratto di strada di Vita Progresso, ironia della sorte, mi sentii arrivare in testa una secchiata di piscio invecchiato, acido e puzzolente. Era un modo abbastanza comune, non di buttarlo addosso alla gente ma di svuotare il vaso da notte, specialmente quando pioveva e la “lavinata” lavava le strade. Quell’odore di piscio, quella persiana che frettolosamente si richiuse me li ricordo ancora come un evento indimenticabile e traumatico della mia infanzia.
Quasi nessuno in casa aveva il bagno; per i propri bisogni si andava nella stalla insieme ai muli, ai cavalli, agli asini, alle mucche, ai conigli, alle galline, alle capre. Generalmente tutti avevano una stalla e il concio ancora fumante delle bestie veniva accumulato in un angolo della stessa, che nella maggior parte dei casi, era divisa da un piccolo muro sul quale ci si accovacciava, come un uccello sul ramo, per fare i nostri bisogni: così era dai miei zii.
Questa era, malgrado tutto, una posizione privilegiata: significava avere una stalla così capiente da destinare un angolo, separato dal muretto, alla concimaia di transito; di transito, perché ogni tre, quattro giorni il “fumere” (così si chiamava perché non era ancora concio ma merda fumante) veniva trasportato con dei recipienti chiamati “zimmila” nelle concimaie collocate in varie zone alla periferia del paese.
Ogni contadino aveva la sua concimaia. Il concio una volta maturo, veniva utilizzato per ingrassare la terra, creando così una specie di ciclo perpetuo.
Noi, nella casa che non era nostra, in Via Educandario, avevamo una stalla piccola, non c’entrava nemmeno il mulo. Ci mettevamo le galline e, per un breve periodo, una capra che poi è morta impiccata; però non c’era lo spazio per una concimaia vera e propria: in un angolo si accumulava la merda dei polli, si buttava la cenere del focolaio e vi si facevano i nostri bisogni, senza purtroppo la possibilità di accovacciarsi sul muretto e quindi insudiciando, a volte, le povere scarpe. Inoltre, c’era un buco dove tutte le mattine svuotavamo il vaso da notte o andavamo a fare la pipì.
A proposito! Non ricordo come facevamo a pulirci. Noi ragazzi, quando eravamo in campagna e ci scappava di fare i nostri bisogni, ci pulivamo con i sassi o con le foglie di vite; ma queste erano scivolose e viscide; meglio era farlo con le foglie di fico che erano più ruvide.
Quello che è certo è che sicuramente non c’era carta igienica…! Se c’era, non si comprava. A volte si trovava della carta gialla massiccia, la carta per incartare il sapone sfuso, quello giallo che usavano le donne per lavare i panni. Del resto i giornali… chi li comprava…? E non penso che quella carta gialla, ruvida, fosse sufficiente. Boh?!
Domanderò a qualche amico se si ricorda come facevamo a pulirci il… culo.

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NEL PAESE DOVE SONO NATO

Nel paese dove sono nato non c’arano boschi, non si faceva il taglio della legna e le poche fascine derivavano dalla potatura degli alberi. Mio padre, però, non possedeva alberi e non era un potino. Per questo la paglia era un componente molto importante, unica risorsa che avevamo per cucinare e per dare da mangiare al mulo.
Ricordo il rito della paglia: mio padre ce la faceva pressare; si stava ore e ore a ballare sulla paglia, una danza di pressatura che potremmo definire “la danza della paglia”.
Si pestava per accumularne il più possibile nel minimo spazio. Noi ragazzi la pressavamo saltando come su una rete a molle, si pestava quasi per gioco e poi in tutto il corpo si sentiva la “manciasciuni” (il prurito da polvere di paglia).
Ricordo che, con le poche fascine di legna, mio padre costruiva una specie di parete, lasciando un corridoio dove teneva: l’aratro a chiodo, gli attrezzi, le galline e il piccolo angolo per la concimaia. Tutto il resto era paglia, paglia pestata, paglia sotto i piedi; anche il corridoio di passaggio lo riempiva di paglia. Tra l’altro, non era paglia normale, era la paglia meno pregiata, quella mina (in siciliano si chiama “crusca”) che nell’aia, spagliando col tridente, si accumula per la forza di gravi tutta da una parte.
Questa paglia serviva a cucinare per tutto l’anno. Le poche fascine di legna servivano a riscaldare il forno per cuocere il pane: mia madre faceva quattordici pani ogni settimana. Lo stesso meccanismo di pressatura della paglia veniva utilizzato nelle “pglialore” dove si accumulava insieme al fieno per dare da mangiare alle bestie.
La paglia veniva trasportata dall’aia sui muli, con delle grosse redi di corda chiamate appunto “rituffa”. A me bambino li “rituna” sembravano giganteschi. Con la paglia lunga, invece, si riempivano i materassi.
Tutte le mattine prima di andare a scuola era sacrosanto dovere riempire la “cartedda” (cesta) di paglia.
Dalla nostra stalla per andare alla cucina bisognava attraversare la sala d’ingresso, la camera e la cameretta dove dormivamo io e mio fratello; nella camerata c’era pure “lu cannizzu” (piccolo silo chiamato così perché realizzato con canne spaccate e intrecciate) che veniva utilizzato come contenitore: ora per il frumento, ora per le fave, secondo il bisogno.
Sopra a “lu cannizzu” mio padre metteva delle tavole e sopra a esse tante cipolle… tante cipolle a stagionare. Queste erano buona parte del companatico di rimpiazzo. Quando non c’era altro, e spesso capitava che non ce ne fosse, le cipolle erano lì, per fare compagnia al pane.
Dato, quindi, l’attraversamento delle camere, mia madre, prima di rifare i letti e di spazzare, m’imponeva di andare a prendere tutte le mattine… la cesta piena di paglia per cucinare. Una cesta piena e ben pressate, altrimenti non era sufficiente. Tutte le mattine la solita storia: prima di andare a scuola, la cesta di paglia. La polvere di paglia era una polvere sottile che faceva starnutire ed entrava nella pelle dando un prurito da grattugia.
L’acqua, pochissimi avevano l’acqua in casa. Alle cannelle pubbliche la erogavano per qualche ora al giorno e non tutti i giorni.
L’acqua per bere, l’acqua per lavarsi, l’acqua per lavare i panni. Il tormento dell’acqua: portare le anfore di terracotta alla cannella pubblica, mettersi in fila in attesa dell’acqua, imporsi agli altri per il rispetto del proprio turno e succedeva che spesso si litigava e si rompevano le anfore di terracotta. cercare di riempire i contenitore, correre a svuotarli per tentare di riempirli di nuovo prima che la richiudessero, non era cosa facile. era estremamente importante, comunque, essere i primi per tentare di avere una seconda possibilità.

Per noi ragazzi, fino a che non si andava a lavorare, era obbligo collaborare in casa, stante anche le famiglie numerose e le mamme spesso incinte. L’unica attività importante, per noi ragazzi, era il gioco. Una quantità infinita di giochi. Una creatività immensa. Qualsiasi strumento, oggetto, pezzo di legno, sciarpa, figurine, bottoni, soldi falsi, un cerchione di bicicletta, pezzi di mattoni, diventavano strumenti di gioco: “mazza e brigliu” (il cibbè), si giocava “a lu turneddu, a la fossetta e sei zziccava”, si giocava a “spacca trottola”, un pezzo di mattone veniva arrotondato e diventava “cciappedda”, con una sciarpa si giocava a “rame”, le figurine si soffiavano e vinceva chi ne faceva girare di più; quando faceva freddo e le mani ghiacciavano si giocava a “mani cavudi” (riscalda mani). Giocattoli veri e propri non ne aveva nessuno; io non ho mai avuto una palla, ma era difficilissimo averla; dei miei amici non c’era uno che l’avesse. Si facevano le palle con gli stracci, si giocava a “travu longu”, a “trentuno”, a “quattro e quattr’otto”, a nascondino… a “cchiappareddu”, a “li briganti”, a “lu dutturi”, a “la marredda”. Si giocava, si giocava fino a esaurire ogni energia, il gioco ci assorbiva completamente, ci distraeva dalla scuola, si viveva in mezzo alle strade.

Strade, ovviamente, pieni di carretti, di muli, di galline, ma senza macchine. In paese c’erano pochissime macchine: una di “lu zzu Petru Cacioppo” che si noleggiava in caso di malattia grave per andare a Palermo; un’altra di Saverino che veniva utilizzata dai ragazzi più grandi per recarsi in comitiva nei paesi vicini, dove c’erano… “lue case aperte”. Di macchine private ne ricordo soltanto un paio: la Topolina di “lu dutturi Vaccaru (Vaccaro)” e la Lancia di “l’avvucatu Sciuri (Fiore)”.
Le strade, i cortili erano spazi liberi e noi ragazzi li utilizzavamo a tempo pieno. Ci si alzava la mattina col pensiero di andare a giocare, si finiva di cenare e si tornava in strada a giocare. I cortili erano centri di aggregazione sociale.
Attraverso il gioco si socializzava, si diventata amici o nemici; nel gioco e attraverso il gioco si acquisiva manualità, si diventava competitivi, s’imparava a riconoscere i furbi, i casca sotto, “i babbi”; s’imparavano le parolacce: testa di minchia, babbo di to mà….! erano tra quelle più usate.
A proposito…! Mentre scrivo, mi sto domandando: come mai per indicare “un picciotti mezzu addummisciuto” (un ragazzo mezzo addormentato, un pò passivo), si diceva: “sto babbo…”, oppure “facci di babbo…!” (faccia da scemo), e per indicare “lu sticchiu” cioè la passerina, si diceva : “babbo di to soru” o “babbo di to matri”? Qual è l’affinità tra le due definizioni?
Io le ho sempre pronunciate senza domandarmelo; ma molto probabilmente, nella concezione maschilista siciliana, si pensava che “lu sticchiu”, organo sessuale femminile, fosse un organo passivo! “La minchia”, invece, organo sessuale maschile, organo attivo!
Quindi “babbo” equivale a scimunito, organo passivo
Ecco perché in Sicilia il padre non si fa mai chiamare babbo come in Toscana ma… papà…!
In effetti, se così stessero le cose, un padre “babbo” (scimunitu) passivo) correrebbe il rischio di non essere il vero padre!
E vi sembra una cosa di poco conto?
Meglio non correre rischi e farsi chiamare papà…!
Papà e basta! (elemento siculo virile).Vedete, attraverso il gioco e le parolacce si possono fare grandi riflessioni, e poi il gioco serviva a farci conoscere e ci conoscevamo tutti. Purtroppo, durava poco. Generalmente, all’età di otto, nove anni, i genitori mandavano i loro figli “a picciutteddu” (a fare il ragazzo di bottega): dal falegname, dal sarto, dal barbiere, dal fabbro e via dicendo.
Ma, sfortunatamente, c’era chi aveva un destino peggiore e andava a garzone per badare alle pecore.
Costoro, poveracci, salvo casi rarissimi, diventavano dei condannati a vita; tornavano in paese una volta al mese e venivano dimenticati da Dio e dagli uomini. Ragazzi venduti per una misera minestra, per qualche fascina di legna, per un po’ di formaggio e “quattru tummina” di frumento per dodici mesi di duro lavoro (‘quattru tummina’ corrispondono a cinquantaquattro chili di grano).

 

Altri mandavano i figli a bottega per toglierli dalla strada. Io avendo uno zio barbiere, fui mandato a bottega da lui all’età di otto anni. Mi faceva fare tutti i servigi: spazzare il negozio, pulire gli specchi, andare a prendere l’acqua , comprare le sigarette ai clienti, fare le saponate (per farle, mi toccava salire su di un panchetto perché non arrivavo all’altezza del viso da insaponare).

Di tanto in tanto, questo mio zio mi mandava a comprare venti lire di Tricofilina, una specie di brillantina oleosa che si dava ai capelli rendendoli untuosi; era una cosa che facevo con piacere perché, a sua insaputa, ne compravo quindici lire e con le cinque lire d’avanzo prendevo un gelato. Il gelato più piccolo allora costava cinque lire e venti il più grande e la Tricofilina da “Lilluzzu Trapani” si comprava sfusa.
Non si vedeva mai un soldo, mio zio Gaspare mi dava cinquanta lire alla settimana. La bottega di barbiere (o ‘salone’, come allora veniva chiamato) stava aperta anche la domenica mattina, generalmente si chiudeva dopo le due pomeridiane.
Con quelle cinquanta lire correvo a casa pieno di orgoglio. Mio padre mi lasciava dieci lire, venti lire… ma, per andare al cinema, il biglietto costava cinquantacinque lire.
Uno strazio infinito; mai un soldo.
Non si comprava carne, non si comprava frutta, non si comprava formaggio. L’alimentazione era a base di pane, pasta, olive nere, olive intere e olive schiacciate, mandorle, fave verdi, fave cotte, pane e cipolla, fichi secchi; pane con l’acqua e zucchero: si bagnava una fetta di pane, le si dava una spolverata di zucchero e via morsicando! E la carie morsicava i denti.
La pasta al sugo si faceva solo la domenica e nei giorni festivi. Quando mia madre faceva la pasta con la cicoria, con le borragini, con le bietole selvatiche o con i cavoli, metteva settecentocinquanta grammi di pasta; quando la faceva al pomodoro, ne metteva un chilo e un quarto. Quindi, per risparmiare sulla pasta, la condiva con le verdure selvatiche.
A me piaceva la pasta al pomodoro con il formaggio grattugiato; formaggio che a casa mia non c’era quasi mai.

Quella sola capra che mio padre comprò gli s’impiccò. Per non farla andare nell’erba del vicino la legava. Un giorno la capra si attorciglio intorno all’albero, la corda le si strinse intorno al collo e morì impiccata: forse per la rabbia di non poter mangiare l’erba del vicino o nel tentativo di arrivare all’erba? Boh! E’ una cosa che non sapremo mai.
Così fu che io e i miei fratelli siamo cresciuti a pane e olive, fave e fichi secchi e pochissimo latte e formaggio grattugiato la pasta non mi piaceva, qualche volta, la domenica, compravano cinquanta grammi di formaggio vecchio. Cinquanta grammi di formaggio… eravamo in quattro, non era affatto facile grattugiarlo per tutti. La pasta al pomodoro, quindi, era proprio una cosa da evitare, da fare solo la domenica. Meglio pasta e borragini, fave cotte, cicoria e bietole di campo.
A volte mia madre, la domenica, faceva le polpette con la mollica del pane duro grattugiato. Ci metteva molto pane duro, un po’ di formaggio, qualche foglia di menta tritata, un pizzico di sale e amalgamava il tutto con delle uova; si infarinava le mani con la stessa mollica; le arrotolava a mo’ di piccole palle; le schiacciava leggermente dando loro una forma ovale; le friggeva in padella e poi le metteva nel sugo a cuocere, per farle in umido e insaporirle.
Venivano servite con qualche cucchiaiata di sugo per inzupparci il pane o, come dicono in Toscana, per farci la ‘scarpetta’. Queste polpette mi piacevano un sacco, erano saporite e ne ero ghiotto.
Quando ero amareggiato e mi lamentavo di quella misera esistenza, mia madre mi diceva: “Cosa filamenti? Ringraziando Nostro Signore, il pane non c’è mai mancato!”. Il pane… era veramente tutto.
Mio padre era un contadino povero; tuttavia, un contadino povero riusciva, sempre, a sfamare la famiglia. Un poveraccio pativa la fame; io, a dire il vero, non ho mai provato la fame! O meglio… diciamo che non ho mai provato la fame vera, la fame dello stomaco vuoto.

La fame, però, la conosco. Abbiamo giocato insieme con la fame: l’ho vista nel voltopallido dei bambini, negli occhi dei miei compagni di scuola; l’ho vista camminare per la strada; è stata mia amica di giochi; l’ho vista a piedi scalzi nei campi di rovi; l’ho vista innalzarsi verso il cielo in bare bianche con dei bambini ancora vivi che avevano il colore della morte; l’ho vista nelle bocche sdentate dei vecchi braccianti; l’ho vista all’angolo della strada con lo scialle nero e la mano tesa. La fame la conosco, è stata mia compagna d’infanzia, siamo cresciuti insieme: lei abitava nella porta accanto, nello stesso cortile; a volte, si svegliava di notte e la sentivo piangere.
Qualsiasi sofferenza veniva messa a confronto con la fame e qualsiasi sofferenza al confronto, diventava privilegio.
Bambini dati in affitto, a garzoni, in adozione per un pezzo di pane, perché potessero sfamarsi. La fame l’ho vista emigrare, l’ho vista contorcersi e strisciare; la fame la conosco: ha gli occhi infossati e il sorriso spento.
Ho visto ragazzi , miei coetanei, andare per i campi a piedi scalzi a cogliere cicoria e poi girare tutto il paese nel tentativo di venderne qualche mazzetto per comprarsi un pezzo di pane.
Ho visto bambini rachitici e anemici. La fame ha un solo volto: oil volto triste, emaciato dei bambini; la fame è un mostro capace di spezzare l’orgoglio, la dignità; la fame la conosco…! l’ho guardata negli occhi e non l’ho mai visto sorridere.

Mia madre aveva rispetto della fame; sapeva che con la fame non si scherza . Ogni cosa la metteva a confronto con essa, facendomi vedere il bicchiere mezzo pieno, mi ripeteva: “Non ti lamentare… Tuo padre un pezzo di pane non te l’ha mai fatto mancare”.
Mia madre mi ha insegnato a vedere il bicchiere mezzo pieno, perché il bicchiere mezzo vuoto, più che mezzo bicchiere, spesso… e un pozzo profondo di sofferenza umana.
Sono nato, quindi, in una famiglia di contadini: i miei nonni erano contadini, i miei zii contadini, i vicini di casa era contadini. La campagna era la grande madre terra.
Si facevano tanti figli per dare soldati alla patria, braccia alla terra e bastoni alla vecchiaia. I figli erano il bastone della vecchiaia, la polizza di assicurazione dei poveri.
Più erano poveri, più erano ignoranti e più figli facevano; e più figli facevano e più si moltiplicava la fame e l’ignoranza: “Cosa vuoi andare a scuola! La tua firma la sai già mettere”.
Ecco perché la nostra generazione, quella del dopoguerra, ha fatto pochi figli: per essere in antitesi con la generazione precedente; per cercare di dare loro una vita più dignitosa; per non far loro soffrire la fame; per non renderli strumento di sfruttamento; per essere più cervelli che braccia e possibilmente, possibilmente… per non farli emigrare.

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SEDI SCHIENA E MALIPATIPANZA

Mio padre, come abbiamo già detto, era un contadino povero. Non feceva l’orto, non aveva animali. Coltivava, solo, due pezzi di terreno di nostra proprietà: portava a casa un po’ di fave, un po’ di frumento e verdura selvatica.
Non era coltivatore diretto, non era mezzadro, non era bracciante, non era disoccupato, non era un poveraccio, non aveva assistenza sanitaria, non prendeva assegni di disoccupazione, non era pensionato, non era iscritto all’ufficio di collocamento, non era iscritto a nessun sindacato, a nessun partito, a nessuna associazione, non era iscritto nell’elenco dei poveri, nulla di nulla. Era una specie di nebulosa indistinta che lo faceva diventare né l’una né l’altra.
Mio padre amava dire che era iscritto all’anagrafe comunale perché suo padre ne aveva denunciato la nascita, altrimenti sarebbe risultato non esistente. Era uno che sai faceva i tavolacci suoi e non dava noia a nessuno.
Quando non andava in campagna, e succedeva spesso, si metteva a dormire sulla cassapanca; in quel caso mia madre gli ripeteva, facendo il verso: “Sedi schiena e malipatipanza…!” (riposa la schiena e patisce la pancia!). Oppure andava da mio zio che faceva il sarto o dal calzolaio e in quelle botteghe si faceva delle lunghe chiacchierate, giocava a carte con gli amici e passava il tempo.
Mio padre era, a modo suo, una persona simpatica e di compagnia. Faceva con quello che aveva; era una persona estremamente orgogliosa.
I suoi riferimenti culturali erano uno zio di mia madre, Biagio Riggio, che diceva: ” Il soldo fa a lira, la lira le decine, le decine fanno le centinaia e le centinaia fanno le migliaia…!”.
Con ciò voleva dire che bisogna incominciare a risparmiare dalla lira. Così, per risparmiare, a mia madre non dava mai un soldo e lei, per comprare il sapone , lo zucchero o altre misere cose, era costretta a comprare a credito. Poi, all’insaputa di mio padre, prendeva un po’ di frumento dal piccolo monte e saldava il conto con quello. In pratica, avvenivano scambio di merce.
Fu così, forse, che una volta, a me bambino, venne in mente di escogitare una specie di piccolo mercato: sapete cosa feci!? Rubavo un uovo daL nostro pollaio, lo andavo a scambiare alla bottega e la bottegaia (la zia Maria Cardiddu) mi dava un cremino e dieci lire. A me sembrava una manna: il cremino e dieci lire…! Il cremino costava quindici lire e l’uovo venticinque.
Da quella volta lo feci spesso. Però mia madre aveva l’abitudine di infilare il dito in culo alle galline per sentire quante uova avrebbero fatto nella giornata. Si avvide, quindi, che nella conta mancava l’uovo. Allora cominciò a incavolarsi, non si dava pace e spesso la sentivo urlare: “Vorrei sapere chi è che mi ruba le uova!?”.
Io ancora mi meraviglio di come mi venne l’idea…! Sapete cosa feci!? Cercai una buccia di uovo rotto in mezzo alla strada, tanto lì si trovava di tutto, e l’indomani al posto dell’uovo fresco misi la buccia rotta. Mia madre poteva mai pensare una cosa del genere?
Pensò che una gallina le mangiasse le uova, però non sapendo quale era la gallina non poteva ammazzarla. Così continuai a rubare l’uovo che avrei dovuto mangiare, per scambiarlo con u n cremino e dieci lire.
Mio padre amava ripetere: “Se hai, spendi e mangia; se non hai guarda e passa…!”. Oppure diceva: “Poveri sì, ma sudici picchio?”.
Erano semplici regole di vita che nella miseria davano il senso di essere diversi. Non aver mai bisogno, non fare mai il passo più lungo della gamba, vestiti poveri ma puliti.
Pe lui, i soldi era più importante saperli risparmiare che saperli guadagnare. Infatti… ne guadagnava pochi.
Per esempio, tutte le volte che usciva di casa si lucidava le scarpe con lo sputo e il nero di fumo grasso della padella. Non era una cosa piacevole, le scarpe erano sempre nere e pulite.
Tutte le volte che rientrava a casa, per non cacciarli, si cambiava dei poveri vestiti che usava solo quando usciva.
Più che una persona avara, mio padre era una persona attenta a non spendere quello che non aveva, e quel poco che aveva lo utilizzava come riserva in caso di bisogno.
Il periodo che lavorava veramente e in maniera disumana era il periodo della mietitura.
Ne mese di giugno i campi di grano assumevano il colore dell’oro intenso, tutto il territorio circostante il paese diventava un mare ondeggiante di spighe dorate. Era il tempo della formica, del raccolto, di portare a casa il frutto di un anno di lavoro e di speranze.
Chi era più ricco, chi aveva più terreni aveva bisogno di uomini per la mietitura. Era un lavoro che andava fatto in un ristretto numero di giorni perché una forte pioggia, una forte ventata, gli uccelli, la stessa spiga matura poteva far cascare a terra i chicchi fi grano con grandi rischi per il raccolto.
I mietitori sapevano che era il loro momento: chi aveva pù terreni aveva bisogno di braccianti mietitori e loro ne approfittavano alzando il costo della giornata lavorativa. Tuttavia, la disponibilità di braccianti agricoli disoccupati era tanta e, quindi, chi voleva impiegarsi, salvo particolari chiamate dirette che venivano fissate la sera, doveva andare la mattina, verso le quattro, in piazza, sotto l’orologio e mettersi all’asta. Sicuramente era una cosa umiliante, offensiva della dignità umana. Così, però, andavano le cose.
Coloro che venivano scelti erano i braccianti già sperimentati, gente che sotto il sole di giugno con la falce in pugno si piegava la mattina e, col grembiule e li “canneddi” (piccoli tubi di canna) a riparo delle dita, segava spighe e accavallava covoni per tutto il santo giorno.
Col sole dardeggiante a picco sulla schiena, col cappello di foglie di palma nana intrecciate, “li canneddi” alle dita e con il grembiule di tela, i braccianti davano l’anima a Dio e i polmoni ai piccoli e grossi proprietari terrieri. Sapevano che se non ce la mettevano tutta, se non avessero messo in campo tutta lavoro potenza, volontà e bravura, sarebbero stati licenziati la sera stessa; e siccome in paese tutti si conoscevano, la cosa sarebbe stata risaputa e nessuno riavrebbe scelti per allora e per gli anni a venire.
Ol proprietario, a volte, cercava di creare all’interno del gruppo di braccianti una certa competizione. Ad esempio, si raccontava ironicamente, ma il dramma era reale, di un tizio che ai braccianti, all’insaputa l’uno dell’altro, la mattina dava un uovo ciascuno, facendogli credere che era una particolare forma di rispetto individuale. Ognuno, quindi, si sentiva individualmente in obbligo e cercava di fare più degli altri; a sua volta l’altro pensava: ” Ma come! A me ha dato l’uovo… e loro pavoraano più di me…?”
Ogni tanto il padrone, per spronarli, emetteva un grido: “A ttia di l’ovu?” (Oh te dell’uovo) e ognuno, pensando che dicesse a lui, cercava di fare più degli altri.
Al di là dell’ironia, se veramente ce ne fosse, i braccianti mietitori si davano da fare e mietevano a testa bassa, consapevoli della necessità di portare a casa un pezzo di pane.
Mio padre era figlio di don Peppi Li Causi che si raccontava fosse il più grande mietitore di tutti i tempi. Si diceva, in paese, cgh e riusciva a mietere quattro tumuli di terreno al giorno. È bene considerare che diecimila metri quadri di terreno equivalgono a sei tumuli; quindi, quattro tumuli equivalgono a circa seimila e seicento metri quadri, roba da guinness dei primati.
Con questa nomea, un figlio di tale padre non poteva che essere a sua volta un buon mietitore.
Così mio padre faceva a pieno la sua stagione di mietitura. Io me ne ricordo perché a quell’età, intorno ai sette-otto anni, quando mietevano vicino al paese, mia madre a mezzogiorno mi mandava con una vecchia gavetta d’alluminio, che mio padre aveva portato da militare, a portargli la pasta cotta e delle uova.
I soldi della stagione della mietitura erano gli unici soldi che entravano in casa e dovevano bastare per tutto, per tutti e per tutto l’anno.
Non erano i bisogni a stabilire le priorità ma la disponibilità delle poche lire a scegliere i bisogni, e con quella disponibilità si doveva pagare, anche, il fitto della casa.

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MIA MADRE

Mia madre è sempre stata una donna eccezionale, orgogliosa fino al dito mignolo del piede sinistro. Aveva due cugini medici e una cugina maestra che, per quei tempi e per un paesino agricolo dell’entroterra siciliano, non era cosa da poco. La famiglia in Sicilia è intesa in senso più largo, coinvolge la parentela. L’essere parenti, appartenere a un certo tipo di famiglia è cosa non secondaria.

Lei,. a differenza dei suoi cugini, era stata più sfortunata, perché suo padre, essendosi sposato in età avanzata e avendo fatto fare a sala moglie otto figli uno dietro l’altro, non fu in grado di dare quello che i suoi fratelli diedero ai loro. Inoltre, a causa di un tumore alla mammella, per il quale allora si moriva tra orribili sofferenze; era rimasta orfana all’età di undici anni con un padre vecchio e sei fratelli e sorelle più piccoli di lei. Quindi, smise anzitempo di andare a scuola e dovette accudire la madre ammalata, il padre vecchio e i fratelli e le sorelle più piccoli di lei.
Così quel matrimonio da vecchio di mio nonno e quella morte precoce di mia nonna, sono cascati come macigni addosso a mia madre, sono rimbalzati su di me e, probabilmente, incideranno sulle generazioni a venire.

La miseria e l’ignoranza, purtroppo, hanno una componente ereditaria. A volte qualcuno riesce a uscire dal cerchio; “Uno zsu mille ce la fa à dice la canzone di Gianni Morandi – ma quanta fatica…!”. Il più delle volte, se  la forza di volontà non riesce a prevalere, si rimane impigliate e schiacciati dentro al grande gorgo di quella componente ereditaria.

Mia madre sapeva riempirci la pancia e ci vestiva dignitosamente. Una vecchia giacca la rigirava, riutilizzava le fodere e mi faceva un vestitino. Mi rattoppava i pantaloncini e le camicie e nessuno ebbe mai a dire che “la toppa era peggio del buco”.

Con qualche pezzo di stoffa mi creava un paio di pantaloncini nuovi, ci cuciva le camicie e teneva molto a vederci puliti, con i capelli con la riga diritta e ben pettinati; ci ricordava il motto di mio padre: “Poveri sì, ma sudici picchì?”.

In effetti, considerata la miseria, la mancanza d’acqua e lo stato delle cose, la nostra era una famiglia dignitosa, orgogliosa, pulita e rispettata. Nessuno poteva dire: “Tu mi devi dare”. Non si doveva niente a nessuno, perché non si chiedeva niente a nessuno: quello che avevamo doveva bastare.

Mi piaceva la pasta e fagioli; a casa mia, però, per legumi si usavano solo le fave… Fave in tutte le salse…!

Sentivo  dire che altri ragazzi, compagni di scuola andavano a mangiare la minestra di pasta e fagioli alla refezione scolastica; questa, però, veniva servita (servita… si fa per dire! Forse è meglio dire che veniva sbrodolata nei piatti) ai figli di coloro che erano iscritti all’Eca, Ente comunale si assistenza.

Mio padre, come si Sto arrivando!, non era iscritto a nessun ente; figuriamoci a quello dei poveri…! A me sembrava che i ragazzi che andavano lì a mangiare erano ricchi come noi, oppure noi eravamo poveri come loro: dunque, perché io no…?

Un giorno mi armai di cucchiaio e, facendo finta di essere più povero di quelli che dicevano di essere poveri (ciò, del resto, non mi costava nessuno sforzo di recitazione), mi misi in coda con il cucchiaio infilato di traverso nella cinghia dei pantaloncini, a mo’ di pugnale, come facevano tutti, e, così facendo, mangioni la minestra di pasta e fagioli. Guai però a farmi  vedere in coda, tra gli iscritti nell’elenco dei poveri.

Mia madre ci cuciva in vestiti e ci riempiva la pancia; il mio cruccio, tuttavia, erano le scarpe. Mio padre sapeva inchiodarle con i chiodi a testa grossa, mettere i ferri ai pacchi e alle punte, sapeva mettere tacchi e suole (che, generalmente, rimediava con  qualche vecchio copertone di bicicletta o cuoio di vecchie scarpe), però non sapeva farle nuove e, a forza di accomodarle, il tempo passava, il piede cresceva, le accomodature deformavano le scarpe, le scarpe deformavano i piedi, mi stavano strette e i piedi mi facevano un male da maledire. Il peggio, però, una nell’inverno perché mi venivano i geloni e mi si gonfiavano le dita. Non ho mai capito perché da piccolo mi venivano quegli odiosi geloni che mi si davano un prurito infernale e mi facevano gonfiare le dita tanto da sanguinare.

Mio padre, pover’uomo, s’ingegnava per rimediare alla lunghezza del piede che cresceva a vista d’occhio. Quindi, tagliava prima il dietro della scarpa, lasciando una striscia a mo’ di sandalo, e il tallone del piede usciva fuori; quando non era più sufficiente, tagliava la punta della scarpa e oil dito alluce usciva dal buco: così si recuperava un po’ dietro e un po’ davanti e la scarpa assumeva una forma a barchetta.

Comunque, malgrado tutto, posso senz’altro affermare che dal punto di vista affetto ho avuto un’infanzia felice; un’infanzia povera ma ricca di amore. Sono cresciuto in una famiglia unita dove tutti ci si voleva bene e il calore umano e la solidarietà erano valori palpabili, concreti, si sentivano e si toccavano con mano.

La famiglia di mia madre era una famiglia splendida; i suoi fratelli e sorelle erano tutti uniti e orgogliosi.

Mio nonno insieme al fratello Giovanni erano contadini medio-benestanti, mentre Salvatore e Biagio Riggio, altri due fratelli di mio nonno, avevano intrapreso l’attività di artigiani d successivamente di commercianti diventando maestri ebanisti, medio-benestanti e rispettabili. C’era, anche una sorellastra di mio nonno (sorellastra, dato che il mio bisnonno, Tommaso Riggio, si sposò con Ambrogio Filippa e successivamente, rimasto vedevo, si risposò con Giangreco Paola dalla quale il 4 di luglio del 1861 nacque mio nonno Vincenzo). Questa sorellastra, nata dalla prima moglie, faceva la merciaia e aveva uno dei negozi più attrezzati di Sambuca.

Mia madre, quindi, a differenza di mio padre, è cresciuta in una famiglia più articolata dal punto di vista sociale e culturale, una parentela integrata nel tessuto della rispettabilità paesana, nipote di artigiani e commercianti economicamente medio-benestanti e culturalmente evoluti.

Purtroppo, però, come abbiamo già visto, a causa della morte della mamma, del padre vecchio e ammalato e della vendita dei terreni, è cresciuta semianalfabeta, povera, carica di lavoro, di responsabilità, con sette persone cui badare e, per di più, facente parte di una famiglia medio-benestante e rispettata.
“Per di più?”, direte voi… Sì, er di più, perché tutta la disperazione doveva essere soffocata, bisognava apparire all’altezza della famiglia di appartenenza, della parentela; tenere alto l’orgoglio e l’onore per continuare aa farne parte, posto che, come succede ai parenti poveri, un po’ ai margini.

A volte i parenti poveri, specialmente se dimostrano di esserlo, possono essere una vergogna e si può far finta di non averli o ci si comporta dicendo: “Ah! già, ci sono anche loro! Però… sono lontani parenti!”.
L’orgoglio, quindi, doveva sovrastare la miseria e camminare a testa alta, e mia madre camminava a testa alta! Era, ed è sempre stata, orgogliosa, puntigliosa; fiera, anche nel modo di camminare. Povera, ma povera a testa alta. Quell’orgoglio e quella fierezza senza né spocchia né superbia; portava alta la testa con quell’orgoglio ch’è figlio, solamente, della digmnità e del rispetto di sé stessi.
Che donna, mia madre…!

La famiglia di mio padre, invece, non aveva questi problemi: erano tutti del solito livello economico e sociale; facente parte di quella casta di contadini poveri, dignitosi, onesti semianalfabeti e grandi lavoratori. La struttura parentale era molto più semplice, faceva parte della grande massa contadina

Mio nonno Natale, chiamato Giuseppe, era di un’avarizia indescrivibile: non spendeva mai una lira, teneva tutto nel mezzanino chiuso rigidamente a chiave.
Io, per naturale sentire, per naturale istinto, sono sempre stato più legato a mia madre, alla sua famiglia e agli zii materni.

Forse erano più poveri di mio nonno Natale, ma in quella casa c’era tanta ricchezza affettiva, tanto più amore, apertura mentale, morale e soprattutto calore umano, solidarietà, fiducia; era una famiglia unita e tutti si volevano veramente bene.

Non c’era festa che non si mangiasse tutti insieme, tutte le occasioni erano buone per incontrarci, per convergere nella casa materna di vicolo Viviano. Lì si discuteva, si passava il Natale e si aspettava l’anno nuovo; si facevano le focacce, i buccellati ripieni di fichi secchi macinati . Era continuamente una fucina di amore che riscaldava incessantemente l’unità della famiglia. Viceversa, non ricordo un pranzo tra fratelli e nipoti dal mio nonno Natale.
La famiglia di mio padre e la famiglia di mia madre erano per me la misura dell’opposto; così, grazie a loro, ho imparato ben presto a distinguere il grano dal loglio,l’amore dall’egoismo, l’avarizia dalla generosità.

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IL LAMENTO NOTTURNO DEL CUCULO

Mi piaceva andare al cinema; tuttavia, non avevo mai i soldi per andarci: potevo avere venti lire, trenta lire, ma non riuscivo mai ad avere cinquanta lire.
A volte, mi mettevo com un’anima in pena davanti all’ingresso del cinema, con la remota speranza che qualche zio mi pagasse l’ingresso. Invece, loro, quando mi vedevano, mi dicevano: “Pippo che fai? Vattene a casa che tua madre sta in pensiero”. Così restava l’anima in pena e la delusione nel cuore. Ma cinquantacinque lire, quasi certamente, erano troppo anche per loro.

Una volta per la festa della Madonna, che ricorre la terza domenica di maggio, attraverso i vari, piccoli regali (dieci lire, cinque lire eccetera), riuscii a mettere insieme cinquantacinque lire.
Andai al cinema da solo; vidi il film a ripetizione , fino a che non mi addormentai.

Mi svegliai e, ritrovandomi da solo e nel buio più profondo, dopo i primi attimi di stupore, a tastoni, uscii dalla fila delle poltroncine. Mi collocai nel corridoio centrale e camminando nel buio, facendomi largo tra le tende, riuscii ad arrivare a ridosso della saracinesca.
Mi misi a sedere per terra, ad aspettare che qualcuno passasse o che mi venisse a cercare.
Il tempo passava, scorreva lento, e tutti i pensieri andavano ai racconti sentiti dal barbiere, i racconti di “lu zzu Santu Mpidugliu” che parlavano di fantasmi notturni che coperti di lenzuola bianche imperversavano nella zona del collegio; di briganti, di persone allupiate che ululavano nelle notti di luna piena; di tragedie paesane, di ammazzatine e di tradimenti.

Ricordo, soprattutto, un cuculo che in maniera ritmica faceva udire il suo lamento notturno. Non avevo mai sentito il cuculo nella notte come quella notte e non l’ho più sentito.
Era un silenzio tombale; nessuno circolava di notte; solo il cuculo faceva udire la sua voce.

Solo, nel buio, dietro la saracinesca, immerso nei più strani pensieri, fantasticavo, ma non avevo paura: sapevo che sarebbero venuti a cercarmi.
Verso le tre di notte, nel silenzio profondo, sentii avanzare dei passi che, cavernosi, cupi, rimbombavano nel vuoto della grande sala cinematografica e si confondevano con il suono stridulo del cuculo. Passi amplificati dall’eco prodotta dalle strade deserte e dalle dalle scarpe chiodate. Non sapevo cosa fare ero con il cuore sospeso: chiamare aiuto e dimostrare la mia vulnerabilità di bambino che si era addormentato al cinema, o aspettare il giorno…? Agire o aspettare? L’eterno dilemma!

Attimi di ansia, di orgoglio e di paura. A un certo punto sentii i passi che si avvicinavano sempre di più verso la saracinesca.
Mi sono messo a urlare: “Ah vossia…! ah vossia…!” (oh lei…! oh lei…!).
Ho sentito la voce di mio zio Giuseppe che mi chiamò per nome, esclamando: “Pippo! Pippo!”.

Così, nella notte e nel silenzio notturno, i passi amplificati dall’eco si allontanarono per andare a chiamare “Lu zzu Cicciu Vinci” per fargli aprire la saracinesca.
Piccoli drammi umani di bambini che crescevano se non beccavano un’infezione o qualche malattia.
Ricordo dei bambini rachitici, di gente che andava a comprare una fettina di carne; cento grammi di carne perché l’aveva indicata il dottore. Lo dicevano quasi a scusarsi: “La compro… per bisogno, me l’ha segnata il dottore…!”. E, moralmente, davanti a tutti gli altri membri della famiglia che guardavano quella fettina, si sentiva più ladro o ladra che anemico o anemica.

O ci aiutava un forte apparatosi immunitario o si moriva; lì la selezione della specie era indiscutibilmente assicurata. Storie di bambini adulti, costretti a riflettere sulle condizioni di vita, di sopravvivenza, di miseria.
Un contesto dove, nella terra delle arance, non si compravano e non si mangiavano le arance; e si mangiava il brodo di carne non quando si ammalava il contadino, come dicono in Toscana, ma quando si ammalava la gallina.
Un contesto dove anche i bambini imparavano presto a proprie spese a cercare di cavarsela.

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LA SCUOLA

La scuola, in un contesto del genere, era la cenerentola, una cosa secondaria. Prima la fame, la sopravvivenza, il gioco e poi… la scuola. Quale educazione scolastica potevamo ricevere dai genitori allorché loro stessi erano analfabeti o semianalfabeti? E gli insegnanti? Non vivevano forse, la stessa situazione fatalistica di avere come alunni ragazzi destinati perlopiù a essere carne da macello?

Ricordo che gli insegnanti arrivavano la mattina e, dopo aver fatto l’appello, uscivano di classe e si ritrovavano a passeggiare e chiacchierare nel corridoio della scuola e discorrevano per almeno un’ora.
(Una scuola della quale mi è rimasto… poco. Non ricordo un metodo che tendesse al dialogo; a stimolare l’interesse per l’apprendimento, per la ricerca; che ci facesse capire la gioia del sapere).

Qualcuno usava la bacchetta, e venivano bacchettato sulle mani a palmo aperto per intimorirci, per indurci all’ubbidienza, al silenzio e al rispetto. Noi… eravamo i ragazzi della strada, i discoli, quelli che marginavano la scuola, quelli che non avevano voglia di apprendere, quelli destinati alla bassa terra: le braccia della plebe e non i ragazzi per bene cresciuti in mezzo ai libri.
Si andava a scuola senza capire che quegli anni avrebbero segnato tutto il nostro futuro.

Ovviamente, non era solo un problema di insegnanti: era l’insieme, il contesto, lo stato delle cose, l’analfabetismo dei genitori; analfabetismo che ci perseguitava e ci portavamo dietro come una pesante zavorra: si arrivava alla quinta elementare quasi analfabeti.

La selezione incominciava, invece, con gli esami di ammissione per le medie. Non a caso, probabilmente, fi facevano gli esami di ammissione. Ricordo che per conseguirla i ragazzi  andavano da un’insegnante a pagamento. Non era ancora il tempo della scolarizzazione di massa. Pochi si potevano permettere il passaggio alle scuole medie e, quando ciò avveniva, si innescava una specie di stacco classista: uno diventava lo studente, il predestinato a qualcosa di diverso; gli altri ai grandi mestieri: manovali, braccianti, braccianti agricoli, contadini, pecorai, artigiani.

Ovviamente non sempre era un fatto di soldi, di ricchezza o di povertà: era, anche, determinante il modo di pensare dei genitori, il modo di concepire il futuro dei propri figli. Spesso, nella miseria, questi erano considerati più braccia che cervelli. C’era chi era disposto a giocarsi l’anima per dare un avvenire diverso ai figli e chi accettava come destino, come malasorte il contesto di miseria, abbrutimento, ignoranza.

Ricordo

COMING SOON……

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