Legàmi – Arbisi Onofrio


INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE

PREFAZIONE

POESIE
Cuntinuu  –   E iu  –   La gna Giulia  –   Lu cuscinu –   ‘Na sirinata  –   ‘Nnamuratu   –   Sulu sugnu  –   ‘Ccussì si tu  –   Annuzza  –   ‘Certi-pinsati  –   Ricordo

–   ‘Nti l’aria


ONOFRIO ARBISI – É nato a Sambuca di Sicilia nel 1956 dove vive con la sua famiglia. È docente di matematica e fisica presso il Liceo Classico “T. Fazello” di Sciacca. Ha la passione, da sempre, per la poesia sia italiano che dialettale. Osservatore attento del mondo contadino, compone quadretti anche di vita vissuta.

Ha coltivato, sin da ragazzo, questo amore, rispolverando quasi tutti i libri in vernacolo nella biblioteca del suo paese, di cui è stato anche amministratore. Scrive perché sente qualcosa palpitare nel cuore; canta la solitudine, l’amore, la speranza.

Per le sue poesie ha ricevuto molti riconoscimenti:

• Sulu Sugnu 1° classificata Prima Rassegna d’Arte di Sambuca Sicilia, anno 1981 e Parla 3° classificato nella stessa Rassegna, pubblicato anche nel libro “Dal dialetto alla lingua” di Vincenzo Baldassano.

• Dunni segnalato alla Prima Rassegna d’Arte di Sambuca di Sicilia, 1981.

• Quatru di friscura 3° Premio Prima Rassegna d’Arte di Sambuca di Sicilia nella sottosezione “Sambuca e noi”.

• Ammàtula finalista alla Rassegna Internazionale d’Arte Sociale Siciliana Valle del Belice nel comune di Vita (TP) nel 1982.

• Ancora più solo pubblicata nel libro Prima Rassegna d’Arte di Primavera, Pittori e Poeti Sambucesi Anno 2004 e segnalato al concorso Prima Rassegna d’Arte di Sambuca di Sicilia.

• La città VI classificata al Premio Nazionale di Poesia di Sanremo Centro d’Arte e Cultura “La Tavolozza”. Manifestazione che ha ricevuto il patrocinio di numerose regioni e gratificata dalla “Medaglia d’argento della Presidenza della Repubblica”, nonché dalla “Medaglia d’argento dell’anno Santo di Sua Santità il Papa Giovanni Paolo II”. Inserita nel libro Premio Nazionale di Poesia di Sanremo. Pubblicata anche nel libro V Rassegna d’Arte Pittori e Poeti Sambucesi, anno 2005.

• Alito finalista al Premio Nazionale di Poesia di Sanremo Centro d’Arte e Cultura “Lo Tavolozza”, anno 2006. Inserita nel libro Premio Nazionale di Poesia di Sanremo.

 

INTRODUZIONE – Non è un compito semplice presentare ai lettori la personalità artistica di Fino Arbisi, perché la sua posizione, in rapporto con la letteratura siciliana contemporanea, merita qualche particolare osservazione.

Fino Arbisi è poeta per vocazione, perché la sua formazione culturale e la sua attività professionale sono di segno nettamente scientifico. Le sue sono rime create tra un teorema ed un’equazione, con qualche remoto ritorno di lirici greci e latini, “…camminando sulla sabbia…”, solo, con le sue malinconie, o in città tra “…gente senza strada priva di volto… capi chini.., occhi indifferenti: dispersi…”. “Scrivu soccu pensu, sbatuliu cu mia… e scrivu chiddu chi lu cori addetta” confessa l’autore, nel desiderio di restituirci il senso più autentico della sua esistenza, non come problema teleologico, ma come canto sofferto e salmodiante. Scrivere versi è un modo arcaico e sempre nuovo di conoscere e di interpretare l’esistente. Questa raccolta di poesie appare il frutto di una grande passione, di.ontana che svanisce in un’atmosfera di ricordi che non esistono più…”. Il rifiuto di un totale abbandono sentimentale e lirico, tanto più presente in quanto il poeta attinge alla propria storia personale, lo porta nel cerchio di un’esperienza prevalentemente individuale, in cui, però, non si lascia imprigionare.

La poesia è una valvola di sfogo, di salvezza, come la vita “…’na varca ‘nta lu mari… “, che lo guida a costruire una rappresentazione originale della Sicilia, dal cielo “calmu… sirenu”… l’aria “’mprufumata di mintastra”, innestata nella sua dimensione rurale, scevra di nostalgie per “…la cannara”, “…la pila cu lu balataru di lignu pi stricuniari”, “… la liscìa”, senza rimpianto per un passato di fatica e di dolore, per ritrovarne le radici e farle ancora germogliare. La scoperta della territorialità e dell’esemplarità della poesia si mostra con evidenza in Onofrio Arbisi, il cui itinerario esistenziale e poetico, anche quando si sofferma su una “…vecchia stolita e camurriusa”, “…sdignusa”, “…’ntrisichera”, “…ursitera”, può leggersi come un’aratura assidua delle cose e dei significati capace, da un luogo circoscritto e definito, di parlare con estensione universale, alla luce di un ancoraggio filosofico, che fa i conti con una concezione della intuizione che va da Aristotele a Humboldt.

Onofrio tende a movimentare l’immaginazione del lettore senza limitarla, perciò lascia lingua e dialetto in perenne tensione, privi di uno scopo raggiunto, tra riferimenti percettivi particolari e radicamento popolare, quasi cerchi un’intuizione intellettuale, un sorrisetto ironico, un’approssimazione alla verità divina, come se le parole fossero un grimaldello buono per forzare le porte dell’ignoto, o un taglia vetro con la punta di diamante, in grado di scalfire la superficie opaca e compatta della banalità quotidiana “pagine bianche di un libro che non ha titolo”. Onofrio Arbisi fa anche del nostro dialetto una parlata felice, canora, scorrevole e spesso anche squisitamente gentile. L’eros, carezzato e blandito, tra un “sapore di freschezza”, “…‘na sirinata”, “…‘na strinciuta di cuscinu”, “…masciddi ‘mprufumati”, “…cori chi ama senza scantu”, “… o addiventa a culabrodu”, “…gli percia lu cori”, “…gli gnuttica la lingua tri voti”, “gli strudi… lu ‘nternu” e costituisce il suo modo inconfondibile per riconoscere come autentico ed inevitabile l’appartarsi in un angolo della terra o “…sulu… ‘mmezzu a la confusioni”, e il rimanere “…’mpilaratu a un blu…” per considerare ogni cosa.

All’impegno ideologico, all’altisonanza della Politica e della Storia, che pretendono di incarnare e realizzare l’universale, la poesia di Onofrio Arbisi contrappone ciò che è rimasto ai margini, l’esclusione, “…’na giurana ‘mmezzu lu lippu”, “…un ciuri ‘ncapu lu cunzerru”, dando voce e memoria a ciò che è stato rifiutato, rimosso, distrutto e cancellato dalla corsa al progresso, nella consapevolezza di parlare a nome di una vasta parte di mondo, materiale o immateriale, che altrimenti non avrebbe parola, quel “mondo muto” di Francis Ponge, “unica nostra patria”, con qualità di argomenti, spigliatezza, incisività di osservazioni, spiritualità e freschezza descrittiva. Molto probabilmente la Storia finirà quando finirà l’Arte. Finché sulla terra ci sarà ancora un artista, capace di scrivere, di dipingere o diversificare “…dd’occhiu mariolu”, “…l’amuri amaru”, ” l’occhi ridenti beddi, ‘rraccamati”, come sa fare magistralmente Arbisi, il mondo potrà dirsi al riparo e la Storia potrà girare ancora il calendario della Vita.

Enzo Randazzo

 


PRESENTAZIONE Lungo campi velati e ricorrenti trasparenze, Arbisi si configura nei suoi versi che indicano e significano interessi esistenziali e segnalano emozioni nel relazionarsi con gli affetti e la natura. Come nuvole, presaghe di arcobaleni o di oscurità, il suo cammino ora si apre al sereno, ora si contrista, rinnovando gli eternali volti dell’umano destino. Con i versi in idioma regionale l’autore vuole sottolineare il suo imprinting e far sentire il respiro della sua terra. Questa raccolta dal titolo “Legami” fa il “vernissage” editoriale.

Paolo Ferrara

PREFAZIONE – Il lavoro poetico di Onofrio Arbisi, che scaturisce dai meandri dell’anima, si dipana con immediatezza espressiva e ritmo travolgente, rivelando una personalità carismatica, animata da profonda sensibilità e forte carica emotiva e comunicativa. Sul filo della memoria egli rievoca immagini che riconducono a ricordi, a visioni di filiale delicatezza, a legami forti, ad esperienze di vita, a sogni e pensieri intrisi di sentimento e incanto, sottraendole, in tal modo, all’oblìo. Ed è proprio dalla memoria che trae linfa, forza e coscienza del suo essere e del suo esistere:

Un alito leggero
che ti sfiora
e ti rianima.
Un impulso ora: una sensazione
rimasta nel ricordo….

In una filigrana tessuta di luce e di ombra, riaffiorano atmosfere levigate dal tempo, addolcite e smussate dalla nostalgia; il passato riemerge dolcemente e diventa favola.

Le emozioni si connotano di sensazioni affettive imbevute di malinconia e di amara solitudine:

Con la solitudine
vado,
camminando sulla sabbia.
Un’onda distrae
il mio pensiero,
un’altra accarezza
la mia malinconia….

E ancora:

Sulu sugnu ‘
mmezzu a la cunfusioni!
Nuddu mi senti. / Sulu…

Il suo dire poetico, fluido e terso, sembra attraversare paesaggi interni e orizzonti oggettivi, senza mai smarrirsi, né perdere di vista l’opportunità di gioire che la vita offre, sebbene il mondo abbia inevitabilmente i suoi lati sofferti e oscuri ed il tempo sia fugace: quasi un invito al carpe diem oraziano, a cogliere l’attimo che segue un altro attimo. I paesaggi descritti rivelano una notevole carica suggestiva: nel mare, immenso ed infinito, il poeta si immerge per approdare alle radici del cuore:

Ho bisogno di te…
come la barca
del mare
per poter andare; … ;

la magia delle stelle è preludio di luce e del sole che riscalda fra trasparenze e vibrazioni di colori e profumi:

Le stelle trapuntano
il largo manto. …
Un profumo
odoroso riempie
le narici: …
un angolo naturale,
che silenzioso
attende il sole
di domani.

È un viaggio compiuto attraverso misteri del passato e la multiforme realtà del presente. Servendosi sapientemente anche del dialetto, l’autore si muove tra le pieghe della nostra terra, riuscendo a percepire e a trasmettere lucidamente l’essenza stessa della nostra sicilianità, nonché a facilitare lo srotolarsi dell’anima nel ciclo perenne del tempo. Egli è sempre pronto a cogliere i respiri e le attese, riuscendo a descrivere mirabilmente le metamorfosi del cuore; diventa, pertanto, araldo dell’eterna forza creativa ed evocativa di cui si carica la parola con la sua sacralità ed il suo fantastico concerto di versi: essa, infatti, è musica, colore, fascinazione.

Piera Gioia


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CUNTINUU

Cuntinuu a caminari
pi sta strata:
strata chi nun sacciu
siddu spunta.
Si ci su’ petri, truppicuna,
siddu è sciddicusa,
siddu è tutta a scìnniri
o a ‘cchianari,
cu lu sapi?
Scuru viu accammora.
E cu lu sapi?
Cu lu sapi s’addabbanna
c’è lu lustru,
siddu ridi la natura,
siddu è chianu?
Siddu cantanu l’aceddi
o s’azzuffanu l’ariddi!
Tuttu è scurusu nni la vita…
ma nun mi fermu,
cuntinuu lu stessu
a caminari
e anchi cu l’occhi chiusi
vaju avanti.

TORNA SU

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E IU

Tu quadìi e iu sudu
senti friddu e iu tremu.
Tu nun m’ami
e iu ‘nfuddisciu.

TORNA SU

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LA GNA GIULIA

Nsemmula assittata cu so maritu
a lu friscu la Gna Giulia stava,
facìa corda e si liccava lu itu,
mittìa ‘na ‘nsita e l’agghiummariava.
Ricordu chistu mumentu ormai passatu
di quannu la canuscìu, iu nicareddu,
’nti ddu curtigghiu sempri affuddatu,
paria chi havia lu meli a munzeddu.
Pulita era: dda casuzza ci spicchiava!
Lettu e cucina ‘nti ‘na stanzicedda
quattru seggi e un tavulu ch’attuppava
un bummulu, un baccaruni, ‘na lancedda.
Darrè ‘nveci c’era stritta la stadduzza,
dunni so maritu, cu lu sceccu, ci tinìa
addini e cunigghia e ‘na crapuzza,
chi di latti ‘dda casa l’arricchìa.
Ora quannu passu e talìu dda porta
mi scura lu cori e la menti ricorda
e anchi si la Gna Giulia eni morta.
la viu assittata ancora chi fa corda.

TORNA SU

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LU CUSCINU

Quannu mi curcu strinciu lu cuscinu,
picchì lu cori, tuppi, tuppi, batti,
entu l’amuri miu cchiù vicinu
chi m’accarizzìa li pinseri astratti.
L’occhiu meu allura ‘mpisantisci,
un munnu mi cumpari fantasiusu
dunni lu duluri cchiù nun esisti,
ma un jardinu virdi ciavurusu.
’Na fimmina dintra l’erva ‘ntraviu
cu ‘na facciuzza frisca e villutata,
mi chiama cu li mani e allampìu
a vìdila chi m’aspetta ddà curcata.
Curru e poi curru e m’affaticu,
lu cori mi scatta, mi nesci lu sciatu,
la strata mi scumpari, po’ sciddicu,
mi trovu ‘nterra beddu ‘mpalittatu.
Ripigghiu lu sonnu a mal’apena
e cercu ‘nta lu scuru lu jardinu,
arrè ricumpari la stessa scena
e sta vota eccula cchiù vicinu.
La strinciu e nun stancu di taliari,
l’abbrazzu tutta e poi l’accarizzìu,
ma mentri chi la staju pi vasari
di nni li vrazza mei scumpariu.
Ntunnu mi firrìu amariggiatu,
mi trovu pi davanti un pinninu,
mi sentu càdiri, poi stravuliatu,
m’avìa cadutu ‘nterra lu cuscinu.

TORNA SU

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‘NA SIRINATA

Bedda affaccia di su finistruni
chi teni chiusu tutta la jurnata,
li ciuri abbivìra di su grastuni
e dùnami sinturi ‘na rancata.
Sulu du’ paroli ti vogghiu diri,
chi nni lu cori haiu stritti forti:
s’amuri m’ha misu a lu muriri,
ha statu ‘na spina pi la mè sorti.
Affacciati e ridimi ‘n’anticchia
cu s’occhi beddi, nivurusi, duci;
teni aperta bona ssa to aricchia,
’na sirinata fazzu cu la mè vuci.
”Un ha ‘ffacciatu, no, la signorina,
è chidda chi la testa mi cunfunni,
di ccà ci passu sempri la matina,
frischìu di cuntinuu e nun rispunni.”
E l’occhi mei sìccanu a taliàri
li ciuri morti di lu finistruni,
la gula l’haiu sicca, ‘un cumpari,
lu tempu passa e ‘un ti nn’adduni.

TORNA SU

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‘NNAMURATU

Cu lu cori iu chinu di ducizza
taju a la gnuni, ‘un dicu nenti,
’n menti mia haiu ‘na biddizza
chi mi punci lu cori cuntinuamenti.
Mi pari sognu, a mia pari fantasia
chi custruisci palazzi senza basi,
pari ‘na cosa strana quasi pazzìa
lu cori miu attraversa tanti fasi.
Mi sentu stranu, tuttu ‘ntramatu
mi sentu nicu, nicu, nni l’immensità,
sugnu accussì, sugnu ‘nnamuratu
chinu d’amuri e di filicità.

TORNA SU

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SULU SUGNU

Sulu sugnu
’mmezzu a la cunfusioni!
Nuddu mi senti.
Sulu…
Nuddu chi m’accarizzìa,
chi mi tocca lu sciancu.
Nuddu chi mi dici
’nna parola duci.
Sulu…
Sulu parlu
e sulu m’ascutu.
Sulu sugnu.
Nuddu mi vidi
e nuddu m’addumanna.
Sulu…
Sulu campu
e sulu mi distrudu.

TORNA SU

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‘CCUSSI’ SI TU

Tu si accusi: bedda e duci
>zuccaru ti dicessi, ma si meli:
l’occhi toi sunna cou du’ luci
chi luminanu l’astri di li celi.
‘Ccussì si tu: tòrbita e originali,
si formidabili e d’animo si forti.
Tu si accusi, si universali
e legata teni a tia la me’ sorti.

TORNA SU

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ANNUZZA

Anna, Annuzza nun pi ponzu diri
quali sentimenti tu mi smovi,
di la testa mi fai perditi li giri,
focu pigghiu si a tuccari provu.
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Si ti strinciu, ‘ccussì, a lu me’ pettu,
lu cori ‘mpazzisci: tic, tac, mi batti!
Lu corpu nun trova chi rizzettu,
chisti nun sunny parolee, ma fatti.
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M’acchiana. la prigioni a triccentu
li naschi mi si gràpinu di botto,
taunt quasi a crìdiri ci stentu

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CERTI PINSATI

Vulìri ti pulissi abbrazzari
iu, cu tuttu lu dunni di lu cori,
strìnciri forti a mia e vasari
l’ucchiuzzi toi beddi culurati.
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A tia fluissi sèntiri sciatari
appurata cu la testa a lu cori
e cu la manu mea accarizzari,
li to muvenzi tutti ‘nturciunati.
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Misuser accusi, ch’avvisi a fari?
fussing filici, miat lu me’ cori,
la menti avessi fantasticari
‘mezzo a li giuri noi li virdi prai.
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Ma invece sugnu ccà a pinsari,
mentri chi forti mi batti lu cori,
po’ sti nervi mi fannu smaniari:

curia di certi ‘nutili pinsati.

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‘NTI L’ARIA

Li spichi eranu beddi ‘ngranati,
ormai era megghiu chi si mitìa;
a manu si tagghiavanu li siminati
e l’omu all’antu, già, si mittìa.
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P’ ‘un tuccarisi cu la fauci li ita,
li canneddi ‘ncapu ci ‘nfilavanu,
accussì passava ‘dda malavita;
li èrmita tra la ristuccia pusavanu.
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Darrè cc’era unu chi li pigghiava,
cu ancina e ancinedda li cugghia,
ottu èrmita cu la liama ‘nfasciava
e lu suduri di la frunti ci scurrìa.
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Supra addinucchiatu, li strincìa
e li gregni a gruppi li ‘mpustava,
pronti, pi quarcunu chi li stravulìa,
‘ncapu li muli, ‘ntill’ària li purtava.
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Quannu parìa ch’assai aviànu mitùtu,
lu patruni cu lu bùmmulu passava,
sudatu lu mitateri, ch’un avìa vivutu,
cu tuttu lu cori ci appuzzava.
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Allatu la casa l’ària si facìa,
la pagghia, sutta, si ci ‘nchiappava,
lu furmentu, ‘ccussì, ‘un si pirdìa,
e la spica li goccia allibbirtava.
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‘Ntunnu firriàvanu li muli ‘mpaiati,
e quannu quarch’unu zuppichiava,
si facìa finta di dàrici lignati;
ddocu capìa chi ‘un si passiava!
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‘Na vuci, un frischìu e ‘na zuttata,
ogni tantu lu giru si canciava,
a pisari si facìa ‘dda jurnata,
sutta lu suli chi cannaliava.
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Si la sira d’allestiri ‘un si parlava,
pagghia e granu eranu ‘mmiscati,
e quannu stanchi lu sonnu piscava,
si durmìa, ddà, finu a li matinati.
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Cuperti, cuscina e autri ‘mbrogghi,
lu lettu, pi tutti, si sistimava,
cu la ‘ncirata, po’, t’accummogghi:
l’acquazzina, di notti, ci sculava.
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Arrè la matina, tuttu, si ripigghia,
la furmentu voli essiri spagliatu,
cu li tradenti cc’è tutta la famigghia.
Prima ch’è sira, hav’a essiri ‘nsaccatu!
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Lu cocciu sciarminatu ch’arristava,
cu la pala e la scupa si cugghìa,
lu crivu, sutta trippedi, si cunsava,
la pagghia e la petra si ci scalìa.
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Cu lu versu tuttu nettu si cirnìa,
deja, cu la prescia si ‘nsaccava,
prima chi lu celu, nivùru, chiuvìa,
‘nti li sacchi pulitu si ‘nnirizzava.
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Dòppu s’aspittava lu cumpraturi.
Cu lu camiu si lu vinìa a pigghiari!
‘Nti ‘ssu mumentu pruvavi amuri:
ricumpizzatu era lu travagghiari!

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