Amodeo – Nuvole


POESIE

A cu’ apparteni?  –   A Volker studente di Berlino  –   Inno a Colonia –   Passioni taciuute  –  Selinunte  –   Spagna un delirio   –   In estremadura  –   Verso Madrid  –   Madrid e il Prado  –   Bilbao  –  Le giovani donne di Milano  –  A mia madre  –  Lettera di Isabella Balbi Amodeo  –  Discorso funebre della sorella Ada  –  Leone, mio fratello


Premessa dell’autore – Nei tredici componimenti che seguono ho raccontato i momenti per me più importanti e significativi. La necessità di evocarli liricamente si è accentuata dopo la morte di mia madre. In precedenza, da ragazzo, avevo dedicato una poesia a Volker. Le altre, le ho scritte quasi tutte dopo un trentennio. 

1. «Passioni taciute» – L’attrazione per gli uomini. 2. «A Volker, studente di Berlino» – L’innamoramento adolescenziale, la scoperta della Germania. 3. «Selinunte» – Gli studi liceali, la bellezza, il sogno della Grecia e del Mediterraneo. L’amore. 4. «Inno a Colonia» – Gli anni della gioventù e dell’allegria. 5. «A cù’ apparteni?» – Il distacco dalla mia Sicilia, lettere di mio padre. 6. «Spagna un delirio» – La consapevolezza della malattia e l’impossibilità di un nuovo inizio. 7. «A mia madre» –  L’addio a una donna straordinaria, sempre perplessa di fronte al mio enigma. 8. «Jerusalem – Al Qods» – Il rifiuto dell’intolleranza e dell’odio. 9. «Una giornata di scazzo» – L’incapacità assoluta di riorganizzare. 10. «Le giovani donne di Milano». 11. «Mare Nero» – Un viaggio nello spazio storico e geografico, carico di rimpianti e dolori, quasi un congedo dalla vita. 12. «Yazd». 13. «Víta» – Spero che a chi mi conosce farà piacere conoscermi meglio attraverso questi versi.

In taluni, come in «Selinunte», «Mare Nero» e «jerusalem – Al Qods», ho cercato di recuperare la rima. Sono tredici componimenti nei quali ho espresso tutto. Non penso di poterne comporre altri.

Leone Amodeo – Milano 2001


PREMESSA

A cura di Rosario Amodeo

Mi sono chiesto a lungo se limitarmi a pubblicare i testi poetici di Leone o se aggiungere alcuni scritti volti a delinearne la personalità. Ha prevalso la mia voglia di dire qualcosa su di lui e sul nostro rapporto, e di rendere note le più toccanti testimonianze date in occasione della sua scomparsa, da me giudicate meritevoli di essere messe in coda al suo «testamento».

La prima testimonianza è un mio ricordo.

La seconda, il breve discorso letto in chiesa dalla sorella Ada al termine della cerimonia funebre.

La terza è una lettera scritta da mia nuora, Isabella Balbi, moglie di mio figlio Tommaso e madre di tre miei nipotini. Isabella ha voluto che la lettera fosse «imbucata» nella bara.

La quarta è una lettera di Anna Frosali. Anna fu per vari anni mia collega in Cerved, la società nazionale di informatica delle Camere di Commercio. Tra i suoi incarichi, vi fu anche quello di responsabile dei viaggi incentive dell’azienda. Per progettarli e organizzarli si avvaleva del contributo di Leone, che poi accompagnava il gruppo fungendo da guida. Nacque cosi tra i due un rapporto cordialmente affettuoso.

La quinta è una lettera di Francesca Marzilla. Francesca venne a vivere a Sambuca attorno al 1980, e vi restò alcuni anni. É appassionata di storia locale e di storia dell’arte, due terreni sui quali incontrò Leone che – prima di ammalarsi – soggiornava a lungo a Sambuca. Ne nacque un’amicizia che si è mantenuta nel tempo, e che riprese vigore in occasione della fase terminale della malattia.

La sesta è una poesia di Kavafis che mi ha inviato Cecilia Romanazzi. Con Cecilia abbiamo frequentato le stesse aule di Scienze Politiche a Firenze, mezzo secolo fa. La nostra amicizia ha resistito agli assalti del tempo e agli oboli della memoria. Non ebbe un diretto legame con Leone, ma, praticando me, lo incontrò molte volte. Anni fa le regalai le poesie di Kavafis in francese. Ora Cecilia ne ha scelto una tra le più espressive, «Voix», e me l’ha inviata in segno dì condoglianza.

La settima è ancora una bellissima poesia di Giorgio Caproni, inviatami da Gianluigi Mauro. Gianluigi l’ho conosciuto nel 1972, quando andai a vivere a Milano. Un gran signore, colto, sensibile, discreto. La nostra amicizia si è estesa alle famiglie, figli compresi e non mostra segni dì stanchezza malgrado il passare dei lustri e il fatto che oggi si viva in città diverse.

I funerali di Leone sono stati celebrati a Milano il 19 aprile 2002, in una chiesa nei pressi della sua abitazione. Leone non era credente, ma le sorelle hanno proposto la cerimonia religiosa, e io non mi sono opposto. Cremato a Milano, abbiamo trasportato l’urna con le ceneri a Sambuca, e il 24 agosto 2002 (era di sabato) le abbiamo collocate nella tomba di famiglia, con il padre e la madre, celebrando una seconda cerimonia, questa volta del tutto laica. Ad essa abbiamo invitato poche persone: coloro che gli avevano voluto bene. Due sue amiche, nell’occasione, hanno letto brevi necrologi. La prima è stata Anna Maria Ciaccio, un’appassionata di storia dell’arte che insegna all’Università di Palermo. Lei e il marito Nino sono da sempre assai vicini alla famiglia Amodeo; ma il rapporto tra Anna e Leone era particolare: un anno prima della fine, quando già era molto malato e bisognoso di cure e attenzioni anche penose, Leone fu ancora ospite di Anna nella sua casa di Palermo. La seconda è stata Licia Cardillo, direttore del giornale locale, “La Voce di Sambuca”, per il quale Leone spesso aveva scritto. Da questa collaborazione nacque una buona amicizia: a Licia, Leone scrisse lettere che nulla nascondevano della sua dolente umanità, lettere che presuppongono un rapporto intenso e di scambio sincero e profondo. I necrologi di Anna e di Licia sono le due ultime testimonianze.


. . . . . .

A CCU APPARTENI?

(Il distacco dalla mia Sicilia, lettere di mio padre)

Sambuca Zabut,
acropoli arroccata sul colle dell’Emiro
paese dì mio padre e dei miei avi,
fantasma in certe lunghe notti insonni
in giro per il mondo,
sei nel mio sangue e nella mia memoria.

Vaste colline verdi a primavera
cogliere cicoria e giriceddí
terre bruciate dall’arsura estiva
su cui svolazzavano le upupe e le gazze
campi ondeggianti di sulla, fave o grano
la fonte che sgorgava a San Giovanni
e il Pino alla Conserva:
prodigi degli dèi.
.
La raccolta delle olive e la vendemmia
il sangue delle gelse sulle mani 
l’odore dell’origano in montagna
alla Tomba della Regina ed al Cannizzo
dove gracchiavano le carcarazze
e sui carrubbi immensi
planavano i nibbi in ampi giri.
.
Li setti vaneddi e i palazzi dei civili
I misteri del Collegio e i Cappuccini
le pergole e i pozzi nei cortili
archi passaggi e vicoli segreti
il lezzo delle stalle e le strade di giaché
nelle notti d’inverno i calderoni
di siero e di ricotta
la scoperta del sesso in pagliere e cuvirtizzi.
.
Terra crudele di povertà e arroganza
dura di invidie e assurdi pregiudizi
con sogni di giustizia e di equità
bandiere rosse e preti combattenti
fiori di maggio e immense processioni
speranze di riscatto sociale e culturale
strazi di madri di gioventú spezzate
dolorose partenze verso nuove vite:
l’America-Zuela e l’Argentina.
Evviva Maria dell’Udienza!
.
Sambuca di Sicilia, provincia di Agrigento (sic!)
brutto paese deserto e cementificato,
agglomerato informe e sparpagliato,
sei stata per me un mito, un incubo e un rimpianto.
Quando ritorno non ti riconosco
non sei piú mia, né ti appartengo piú.
Non mi rattristo piú, mi è indifferente
Di te solo m’è caro l’affetto degli amici.

Maggio 1998, per il quarantennale de «La Voce di Sambuca»

TORNA SU

.
.
.
.
.
.
.
.
.
.

A VOLKER STUDENTE DI BERLINO

(L’innamoramento adolescenziale, la scoperta della Germania)

Appoggiato alle mura, col volto nel vento,
mentre ti parlavo di Saffo, di Catullo,
sognavo di accarezzarti il viso
e di baciarti lievemente le mani.
Ma mi sentivo indegno
e dicevo tra me:
«Perdonami Volker per quello che sento».
.
Ora nella mia stanza sono solo
e vedo per la finestra aperta
le lucciole volare nel giardino;
non c’è che il fischio dei treni
che passano lontano
a tenermi compagnia.
.
Adesso so che quando
ritornerò su al Forte,
mentre sull’erba con gli occhi socchiusi
contemplerò il tramonto,
vedrò d’un tratto balenarmi accanto
il tuo sorriso.
.
Ma tu sarai lontano
e fra queste colline
non ci sarò che io
a ricordare
uno studente di Berlino
un giorno di maggio
sul Ponte Vecchio.

TORNA SU

 

. . . . . . . . . .

INNO A COLONIA

(Gli anni della gioventù e dell’allegria)

Alta sul fiume incombe
la grande cattedrale.
In basso, giorno e notte senza sosta,
treni attraversano il ponte degli Hohenzollern,
su cui cavalcano i bronzei imperatori.
Fra le sue arcate di continuo
scendono e risalgono la corrente
battelli illuminati e scure chiatte.

Giunto presso Colonia, il padre Reno,
scorgendo da lontano il Rathaus e San Martino,
si allarga, si distende e si rallegra,
trinca gioioso brocche di chiaro vino e birra Kölsch
mangia stinchi di porco e Halver Hahn1.

A carnevale si veste da giullare
con campanelli in testa e penne sulla schiena
e canta, ride, balla e si profuma;
si aggira per le strade e nei locali,
fin nei parchi cresciuti sui colli di macerie
dove nel buio sussurra parole forestiere.

Poi pellegrina penitente per le chiese,
venera le ossa dei re Magi,
le reliquie di Orsola e delle sue
undicimila vergini martiri compagne,
ammira gli angioletti cosí belli
che svolazzano nei quadri sugli altari
e, salutando i campanili di San Cuniberto,
riprende la corsa verso il mare.

Si lascia indietro Kóln,
sognando il prossimo ritorno,
Köln, metà romana, metà germana,
cattolica e antivescovile,
bombardata, distrutta, incenerita,
isorta come l’Araba Fenice
nel cuore di Germania e dell’Europa.

Le alte torri dell’antico duomo
sempre a vegliar su te,
millenaria e nobile città
bellissima figlia di Agrippina.

Milano, dicembre 1998
Ricordando Colonia venti anni dopo

1 –  Nel dialetto di Colonia una specie di panino con fette di formaggio

TORNA SU

. . . . . . . . . . .

PASSION I TACIUTE

(L’attrazione per gli uomini)

I
Tredicenne mi affacciavo
alla finestra della terza media.
Tra il vocio dei compagni
guardavo silenzioso,
nel chiostro sottostante,
l’affaccendarsi dei carabinieri.
.
Erano aitanti, belli e forestieri.
Come gli eroi di Omero
a petto nudo strigliavano cavalli.
.
Uno di loro si chiamava Ignazio.
Per tutto l’anno lo immaginai Diomede
invitarmi in groppa al suo corsiero
portandomi al galoppo via lontano
oltre la fiumara e le montagne.
.
II
.
Carabinieri tra le stoppie arse
di un feudo di Sicilia.
Nell’ora della calura ardente,
semisdraiati accanto a me
coi pantaloni un po’ sgualciti,
vicino al muro della masseria.
.
Uomini forestieri senza donne
come monaci guerrieri d’altri tempi
votati all’ascesi ed alla lotta,
guardati nel paese (ora lontano!)
con occhi circospetti e di timore.
Ma sono maschi e parlano d’amore
soffregando con dita vigorose
i cuoricini secchi di un’erba senza nome.
.
Mi vengono in mente versi di poeti:
«figli di quell’umile Italia
per cui morí la vergine Camilla».
Rivedo immagini di «Pane, amore e fantasia».
.
Vorrei abbracciarli e di piú,
sono però un ragazzo e non la Lollo.
Posso soltanto amarli in un silenzio
di desiderio e di accondiscendenza.

Verona, gennaio 1999 . In occasione della mostra di Giovanni Fattori, ricordando la mia Sicilia del 1958, Pietro Germi e Virgilio

TORNA SU

.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.

SELINUNTE

(Gli studi liceali, la bellezza, il sogno della Grecia e

del Mediterraneo. L’amore)
A Selinunte
ci si arrivava con la littorina.
Filava tra gli agrumi e gli uliveti
per le campagne di terra rossa
di Castelvetrano
(oh morti infauste di Gentile1 e di Giuliano2!).
Sulla spiaggia lunga e solitaria,
candidi e profumati come gigli,
a primavera fiorivano i pancrazí.
L’estate coi pastori
scendevano le greggi
per lavarsi in mare.
Seminascosti dalla macchia
i bunker della Seconda Guerra:
tempi infiniti ad aspettar nemici
scrutando il largo dalle feritoie.
.
Selinunte era il luogo dei silenzi,
dello stupore.
In alto sull’acropoli
templi di déi pagani senza nome
orse Afrodite… Hera… Poseidone:
colonne e capitelli arrovesciati
dall’odio della terra e degli umani.
Per giungervi viottoli spinosi
papaveri cornuti e palme nane.
I calciatori della Folgore talvolta
i sdraiavano al sole sulle dune:
i corpi belli come statue antiche.
.
Selinunte era il mito della Grecia.
.
Passavamo ore intere tra la spiaggia e l’acqua<
sguazzando dove il Selino rallentava
prima di perdersi nel Mediterraneo,
guardando sulla rena le pimelie,
ere e lucenti come scarabei,
perennemente in corsa affaccendate,
e palle rotolanti di alghe secche.
ulle alture le torri di vedetta.
.
Selinunte era il luogo delle attese.
.
Attendevano i megaresi3 le puniche triremi
attendevano i siciliani le navi barbaresche
attendevano gli italiani coi tedeschi
lo sbarco degli angloamericani;
attendevamo il futuro e l’amore
noi liceali.
Nel vento che soffiava sulla sabbia
percepivo sussurri e implorazioni
in lingue a me note o sconosciute.
Trinacría bellum polemòs krieg war
mammaliturchi sakelía harb amuri
tanit santiago demètra allàhuakbàr
lekhem hoshev sangiuvannuzzubeddu..

Selinunte, la Storia, la Leggenda..

Solcavano rare navi l’orizzonte,
ma dall’Africa dirimpetto oltre il Canale
non giungeva nessuno all’arenile,
solo una misteriosa voce femminile4
cantava in arabo spasmi di passione:
forse erano i pianti disperati di Didone.
Ma un giorno dalle mosse onde del mare
mi guardarono, venuti dal Baltico lontano,
due occhi di ghiaccio azzurro e trasparente..

Selinunte fu il luogo del mio primo amore
Selinunte era il sogno e la bellezza
Selinunte fu il tempo della giovinezza.

1998, ricordando il 1966

TORNA SU

.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
SPAGNA UN DELIRIO

(La consapevolezza della malattia
e l’impossibilità di un nuovo inizio)

A Sandra, compagna di viaggio,
d’intese e di contese

.
.
.

In estremadura .

Corre, scivola Sandra per i sentieri dell’Estremadura;
scivola, corre con le sue scarpette
Tra ginestre e colline di ciliegi.
Si volta e mi sorride
col suo volto sempre da bambina
che ha visto il sole e le nevi della vita.
Bellino, bellino, dice.
Saliamo e scendiamo per valli e pendii.
Nessuno: solo ciliegi, ciliegi all’infinito,
velati da fiori bianchi senza odore.
.
Al monastero di Yuste pendono drappi neri alle pareti
per ricordare il lutto e la tristezza
di Carlo Quinto d’Asburgo imperatore.
Da un alto muro, assenti ma sensuali,
la guardano cinque giovanotti proletari:
come nelle pitture rinascimentali,
muti spettatori di martiri di santi e cerimonie.
Lei non li vede, sogna
romantici rivoluzionari intellettuali,
anarchici combattenti por los derechos humanos
tra il Rio della Plata e il Nicaragua.

TORNA SU

.
.
.
.
.
.
.
.
.
.

VERSO MADRID

Andiamo andiamo verso Salamanca.
All’ingresso ci accoglie una grottesca
rosso vestita prosti dixiana1.
Ma, dentro, la città
ha i colori della rosa e dell’arancia,
le sue pietre sono come dorate
dal sole declinante e dalla scienza umana.
Andiamo, andiamo: appare Avila, la città murata.
Sul grigio lastricato delle strade
sento le preghiere e i pianti di Teresa.
Poi di nuovo nessuno:
solo quercioli, quercioli all’infinito
ul deserto altopiano di Castiglia.

TORNA SU

.
.
.
.
.
.
.
.
.
.

MADRID E IL PRADO

Si appressa ora la capitale della Spagna.
Ecco la capitale dell’Impero
sul quale il sole non tramontava mai.
Volano Vittorie sul cielo di Madrid,
avanza Cibele sul carro trainato dai leoni,
svettano statue di dèi sulle facciate.
Come sono lontane le forme della Grecia,
come lontana l’armonia toscana!
Ma in basso, nelle piazze e nelle calli
ferve senza sosta la movida.
Le undici? Le due? Che importa!
Madrid è il trionfo della vita.
Volti di santi e di sovrani mi fissano al Prado:
sono davanti a me, cosí vicini.
Potrei toccarli, interrogarli
come nessun devoto o suddito poté fare,
stropicciare le vesti iridescenti delle infanti
per capire i perché di un’ascesa e di un declino.
Sulla plaza Mayor,
quadro di rappresentazione e di dolore,
alita un vento gelido, la notte.
Penso agli autodafè e all’Inquisizione,
agli imperi, ai popoli distrutti
per la brama dell’oro.
Grande Madrid, capitale di Spagna
e un tempo della mia Sicilia.
Sull’Avenida delle Americhe e alla Porta d’Europa
ribolle il traffico, brillano le luci.
Che nomi! Mi sento premere addosso
tutta la storia del Vecchio e Nuovo Mondo.

TORNA SU

.
.
.
.
.
.
.
.
.
.

BILBAO

Via, via dal passato,
verso un futuro che non ci sarà.
Corre il talgo2 veloce tra i quercioli
sul deserto altopiano di Castiglia.
Alla fine Bilbao,
la basca Bilbo.
Un giorno, in un sogno,
all’orizzonte del Golfo di Biscaglia,
riflettendo i mutanti colori del cielo e delle acque,
apparve una lucente nave di titanio.
Ma non ha preso il largo,
ha attraccato alle sponde industriali del Nervión.
Forse è giunta per me, per invitarmi
sul suo magico scafo di splendore.
Salpa, nave di Gehry, portami via3.
La balera di Bill non c’è piú,
chissà dov’è Joe che la sera cantava
«Alter Bilbaomond», vecchia luna di Bilbao4.
Salpa, nave di luce e di bellezza,
verso nuove speranze e nuova vita.
Maggio 1998, al ritorno dalla Spagna
Ricordando Carlo V, Otto Dix, Teresa d’Avila, gli Aztechi e gli Inca,
K. Weill e B. Brecht («Bilbao-Song») e Frank O. Gehry

TORNA SU

.
.
.
.
.
.
.
.
.
.

LE GIOVANI DONNE DI MILANO

A colpi di tacco
zainetto in spalla
attraversano veloci
la città.
Gambe azzurrate
dai collant
vanno decise
dove loro sanno.
Belle guerriere
della modernità.

TORNA SU

.
.
.
.
.
.
.
.
.
1 – Da Otto Dix, pittore tedesco (1891-1969), autore, tra l’altro, de Le tre prostitute.
2 – Treno veloce delle ferrovie spagnole.
3 – L’architetto americano E O. Gehry ha progettato il Museo Guggenheim di Bilbao. L’edificio, rivestito di titanio, è costruito sulle sponde del Nervión, il fiume che bagna la città, ed è considerato uno dei piú originali del XX secolo: può ricordare il moto ondulatorio delle vele o una navetta spaziale.
4 – La balera di Bill a Bilbao e Joe che vi cantava sono evocati nella canzone di Brecht «Bilbao-Song», tratta dall’opera teatrale «Happy End».


.
.
.
.
.
.
.
.
.

A MIA MADRE

Mamma, mami, mita, maman, mamuska.
Con quanti nomi ti ho chiamata,
perfino, quando invecchiavi,
«picciuttazza»
Bastava ravvivarti i capelli,
metterti un foulard al collo e gli orecchini
ed eri sempre tu, col tuo bel volto limpido e sereno
«la signora madre» come ti definiva tuo marito.

Folle presunzione la mia!
Ho creduto talvolta che tu fossi eterna
per raccontarci le vecchie storie di Lipari e di Francia,
per suonarci «Frou Frou» sul pianoforte
e per entrare insieme nel Duemila.
Tanto hai fatto per me e per i miei fratelli.
Tutto ci hai dato, non possedevi nulla;
Solo la pensione, frutto del lavoro,
e il nostro amore. E sempre ci seguivi
di città in città, da una nazione all’altra.

Eri nata nelle Eolie,
isole dei venti e dei vulcani,
aperte al mare e al mondo,
con il ricordo della «douce France»
nel cuore dei tuoi genitori.

Sei venuta a Sambuca,
che ti apparve allora chiusa e arcigna,
seguendo il tuo onesto marito antifascista.
Per lui il confino fu anche una fortuna
perché lì ti conobbe. Poi spesso ti chiamava
«Lidia mia bella e buona».
Grazie per averlo amato e per essergli stata
sempre vicina negli entusiasmi e nelle delusioni
che tutti attraversiamo nella vita.

A quante generazioni di sambucesi
hai insegnato a scrivere, a pensare e a ben portarsi?
non ho mai assistito alle tue lezioni,
ma si raccontava
della tua serietà, bravura e intelligenza.

Ti sei spenta in un attimo
nel torrido Ferragosto di Milano
senza soffrire e con serenità
senza mai lamentati e disturbare,
com’era tua abitudine.

La sera prima, avevi recitato con me,
a fatica, balbettando,
la preghiera per gli agonizzanti.
Poi alcuni versi della Divina Commedia
per tenerti sveglia la mente.
Io iniziai: «Nel mezzo del cammin di nostra…
e tu aggiungesti – vita».

Concludemmo poi con l’ultimo verso del Paradiso,
là dove, son certo, incontrerai
«l’amor che move il sole e l’altre stelle».
Addio madre, riposa in pace.

.

Milano, agosto 1998.

TORNA SU

.
.
.
.
.
.
.
.
.
.


LETTERA DI ISABELLA BALBI AMODEO

Leoncione caro,

che sensazione strana: mi sembra insolito che tu sia andato via cosi in silenzio! Sono incredula e serena al tempo stesso, in preda a quello spaesamento che di solito ci coglie in questi casi; si affacciano alla mente tante immagini, frasi, atti, ricordi, tutti sovrapposti gli uni agli altri.

L’ultima volta ci siamo parlati due settimane fa: in realtà tu più che parlare ascoltavi e questo tuo silenzio mi ha messo un pò a disagio, facendomi ritrarre su una telefonata pseudo-formale che, lo confesso, rendeva noiosa e vuota la conversazione.

«Non è più Leone, stavolta per davvero!», ho pensato.

Ad un certo punto però ti ho di nuovo riconosciuto; con tutta la forza che avevi in quel momento e col tono appassionato, teatrale e tragico di te così caratteristico mi hai fatto – in maniera del tutto decontestualizzata rispetto alla conversazione – la seguente dichiarazione: «Mi è insopportabile l’idea che mio nipote Eugenio possa essere un nano! ». La mia risposta, chiaramente da te non attesa, si è assestata su posizioni scientifico-divulgative ed è stata un pò frettolosa ed impaziente.

Ho chiuso in fretta la conversazione e due reazioni si sono affacciate alla mia mente: la prima, immediata, è stata quella della piccata mamma chioccia che difende il suo pulcino, perfetto a dispetto di tutto e tutti; la seconda è subentrata un istante dopo, superando e cancellando l’iniziale presunzione materna e lasciandomi intravedere, al di là della critica verbale, il grande affetto che per il mio piccíno hai sempre manifestato: anche alla fine ti sei rivelato per il Leone che ho conosciuto e amato.

Mi mancheranno il tuo gusto del paradosso unito alla voglia di stupire il tuo interlocutore (di cui spiavi le reazioni di sottecchi), quel posare ad eccentrico, quel voler essere ricercato e originale fino all’ossessione. Quel tuo essere, in sintesi, sopra le righe e gli stereotipí che era anche intelligenza, arguzia, ironia, spirito critico e mai, mai banalità.

Quello che ai tuoi cari faceva male, a me, in posizione di distacco emotivo, incuriosiva, intrigava, indispettiva a volte… spesso creava ammirazione. Mi spiace solo non aver potuto parlare con te un po’ di più; non ho fatto in tempo a renderti visita e a farti dono di un libro di cui avremmo potuto chiacchierare: hai sempre avuto molto da insegnare…

Ieri sera ho detto a mia figlia Bianca che sei andato in cielo e lei, al momento di dormire, in luogo della solita favola, ha voluto che le raccontassi la storia dello zio Leone: si è addormentata sapendoti nel deserto saudita, sotto a peso di una valigia zeppa di gioielli e doni per i suoi nipoti, intento a fare l’autostop. E ti ha visto infine allontanarti a bordo di una incredibile limousine dotata di ogni lusso e comfort, seduto a fianco di due capre, ignare protagoniste di un’esperienza senza eguali.

Ne siamo certi: hai trovato l’oasi.

Buon viaggio zio Leoncione da Isabella, Bianca ed Eugenio.

Roma,

18 aprile 2002

TORNA SU

. . . . . . . . . .


In questi ultimi anni Leone era cambiato, ma noi che lo abbiamo conosciuto prima che la malattia lo colpisse, ricordiamo bene i tratti inconfondibili della sua personalità. Ricordiamo soprattutto la sua umanità, la conversazione colta e affascinante, il suo amore del bello e la spregiudicatezza intellettuale che lo portava a rifiutare luoghi comuni e strettoie mentali.

Leone aveva tanti interessi che perseguiva con passione: amava il mondo classico e il mito greco, aveva una buona conoscenza della cultura araba e dell’Islam, si appassionava alla storia dei popoli e ne studiava la lingua, amava la natura, viaggiava con intelligenza. Ancora studente, tornò per sette anni consecutivi in Persia; più tardi visitò l’India, il Nepal, l’Afghanistan e il Pakistan, non per cercare il fumo, l’insegnamento dei guru e l’illuminazione, ma, come lui scrisse, «per seguire le tracce della Storia che mi ha sempre affascinato». I suoi viaggi lo portarono dalla Germania alla Turchia, dalle Repubbliche baltiche al Sudest asiatico, dalla Birmania alle Galapagos. Erano avventurosi viaggi di scoperta. Leone si avvicinava alle altre culture con avida curiosità e intelligenza. Da questi viaggi tornava sempre carico di oggetti per la sua collezione o da regalare ad amici e familiari: vasi, mattonelle, piccole sculture, reperti antichi, oggetti in bronzo, cesti. In un bazar straboccante di oggetti insignificanti, riusciva a scovare quello bello, che valeva la pena acquistare.

Egli credeva appassionatamente che ogni popolo debba far di tutto per preservare il proprio patrimonio culturale e le tradizioni civili e religiose, contro l’appiattimento e l’accettazione della modernità a tutti i costi.

Leone era un originale e un individualista, ma era generoso e pronto ad aiutare chi era in difficoltà. E sosteneva con fervore le ragioni dei popoli, come il curdo o l’armeno, che hanno sofferto persecuzione e sterminio.

Leone era buono e leale. Noi fratelli gli siamo grati perché ha amato tanto nostra madre, e, con dedizione, si è preso cura di lei, negli ultimi difficili anni della sua vita.

Vivere talvolta è assai più arduo che morire.

Talvolta vivere è assai più arduo che morire.

Cosi Leone ha scritto in una sua poesia.

Leone ha sofferto molto. Con la sua umanità, con le sue sofferenze, Leone ci ha reso migliori; col suo estro, la sua originalità, il suo anticonformismo, il suo modo appassionato di vivere la vita, Leone ha arricchito la nostra vita.

E chiudo con i suoi versi:

E tutto è scorso e se n’è andato via

vorrei senza rimpianti

e senza pentimenti

perché ogni cosa ha un senso

e un suo perché.

TORNA SU

. . . . . . . . . .


LEONE, MIO FRATELLO

Nei cassetti della scrivania di Leone ho trovato di tutto: lettere, cartoline postali e illustrate, fotografie, francobolli da collezione, appunti di vario tipo, documentazione burocratica e contabile, bozze di scritti mai completati, e altro ancora; ma pochissimi ritagli di giornale, tra i quali un articolo di Giovanni Testori apparso su L’Espresso del 9 novembre 1975, certo non casualmente conservato. Eccolo: A rischio della vita

Sull’atroce morte di Pasolini s’è scritto tutto; ma sulle ragioni per cui egli non ha potuto non andarle incontro, penso quasi nulla.

Cosa lo spingeva, la sera o la notte, a volere e a cercare quegli incontri? La risposta è complessa, ma può agglomerarsi, credo, in un solo nodo e in un solo nome: la coscienza e l’angoscia dell’essere diviso, dell’essere soltanto una parte di un’unità che, dal momento del concepimento, non è più esistita; insomma, la coscienza e l’angoscia dell’essere nati e della solitudine che fatalmente ne deriva. La solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso da quando diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare coloro che con un aggettivo turpe e razzista, s’ha l’abitudine di chiamare «diversi».

Allora, quando il lavoro è finito (e, magari, sembra averci ammazzati per non lasciarci più spazio altro che per il sonno, e magari neppure per quello); quando ci si alza dai tavoli delle cene perché gli amici non bastano più; quando non basta più nemmeno la figura della madre (con cui, magari, s’è ingaggiata, scientemente o incoscientemente, una silenziosa lotta o intrico d’odio e d’amore) e si resta li, soli, prigionieri senza scampo, dentro la notte che è negra come il grembo da cui veniamo e come il nulla verso cui andiamo, comincia a crescere dentro di noi un bisogno infinito e disperante di trovare un appoggio, un riscontro; di trovare un «qualcuno»; quel «qualcuno» che ci illuda, fosse pure per un solo momento, di poter distruggere e annientare quella solitudine; di poter ricomporre quell’unità lacerata e perduta. Gli occhi, quegli occhi,- la bocca, quella bocca; i capelli, quei capelli; il corpo, quel corpo; e l’inesprimibile ardore che ogni essere giovane sprigiona da sé, come se in esso la coscienza di quella divisione non fosse ancora avvenuta, come se lui, proprio lui, fosse l’altra parte che da sempre ci è mancata e ci manca.

Mettere di fronte a queste disperate possibilità e a queste disperate speranze il pericolo, fosse pure quello della morte, non ha senso. Io penso che non s’abbia neppure il tempo per fare di questi miseri calcoli; tanto violento è il bisogno di riempire quel vuoto e di saldare o almeno fasciare quella ferita.

Del resto, potrebbe segnalarci che dentro quegli occhi, dentro quella bocca, quei capelli e quel corpo, si nasconde un assassino? Nella mutezza del cosmo queste segnalazioni non arrivano; e anche se arrivassero, torno a ripetere che il bisogno di vincere quell’angoscia risulterebbe ancora più forte e ci vieterebbe d’intendere.

Si parte; e non si sa dove s’arriva. Per sere e sere, una volta avvenuto l’incontro, l’illusione riprecipita in se stessa. Ma nella liberazione fisica s’è ottenuta una sorta di momentanea requie; o pausa; o riposo. La sera seguente tutto riprende; giusto come riprende il buio della notte. E così gli anni passano. La distanza dal punto in cui l’unità perduta è diventata coscienza si fa sempre maggiore, mentre sempre minore diventa quella che ci separa dal reingresso finale nella nientità della morte; e dalle sue implacabili interrogazioni. Le ombre, allora, s’allungano; più difficile si rende la possibilità che quell’incontro infinite volte cercato, finalmente si verifichi; più difficile, ma non meno febbricitante e divorante. La vicinanza della morte chiama ancora più vita; e questo più o troppo di vita che cerchiamo fuori di noi, in quegli incontri, in quegli occhi, in quelle labbra, non fa altro che avvicinare ulteriormente la fine. Così chi ha voluto veramente e totalmente la vita può trovarsi più presto degli altri dentro le mani stesse della morte che ne farà strazio e ludibrio. A meno che il dolore non insegni la «via crucis» della pazienza. Ma è una cosa che il nostro tempo concede? E a prezzo di quali sacrifici, di quali attese o di quali terribili e sanguinanti trasformazioni o assunzione di quegli occhi e di quelle labbra?

Era colto. Era intelligente. Era curioso delle cose del mondo. Era incapace di odio o di risentimenti prolungati. Aveva un solo nemico contro il quale si scagliava con veemenza: la mafia e la sua cultura, ripulsa che gli proveniva dal gene di famiglia. Era generoso: dare lo gratificava assai più che ricevere.

Una sessualità vissuta in modo pervasivo e «disperato» (aggettivo che usavo con lui, qualche volta provocandone l’irritazione), lo farà precipitare in un gorgo, nel quale si avvitò – senza poterne uscire – fino all’annientamento.

Ci comunicò, a me e alle sorelle, di essere omosessuale quando già era adulto, a venticinque anni. Ricordo ancora il giorno in cui ricevetti la sua lettera da Colonia, dove lavorava all’Istituto Italiano di Cultura.

Quella lettera aveva un incipit quasi aggressivo: «Mi chiedo come sia possibile che fratelli acuti come voi, malgrado i tanti indizi, a partire dalla mia infanzia e adolescenza, non abbiano compreso la mia natura ed abbiano continuato per anni a parlare e a scherzare su presunte storie eterosessuali che non esistevano». E continuava rievocando la serie di indizi che in effetti c’erano stati (leggendo me ne rendevo conto) ma che tutti, genitori e fratelli, avevamo incredibilmente rimosso. Poi concludeva chiedendoci di accettarlo com’era, ma di tacere la verità ai genitori, che moriranno senza conoscerla.

Era il 1970. Leone, l’ho già detto, aveva venticinque anni, essendo nato nel 1945, ed io quasi dieci di più. Entrambi, quindi, uomini fatti. Tuttavia provai un dolore acutissimo. Ci volle tempo perché riuscissi a metabolizzare l’idea. É difficile scavare nei meandri di una personalità. Le nostre strade sembravano divaricate: diversi gli interessi e gli approcci alla vita. E tuttavia ci ritrovavamo sempre col piacere di comunicare e di scambiarci opinioni. Non era solo il collante di un vincolo d’amore, dal sapore familista, a tenere in piedi il rapporto. Questo vincolo c’era, era vivo; saltava agli occhi nel modo di stare assieme, nella naturale solidarietà: venivamo dallo stesso humus, quello di una famiglia patriarcale con valori forti. Ma c’era dell’altro, c’era di più.

lo amavo la Francia e mi appassionavo alla sua lingua e alla sua cultura. Lui, quasi in contrapposizione, scelse un argomento di germanistica per la tesi di laurea (io la mia tesi l’avevo fatta in Francia, e riguardava la Lorena). Ma quando mi invitava a raggiungerlo in Germania, e fungeva da guida colta per me, pendevo dalle sue labbra, e lui ne era gratificato.

lo ero poco attento alle arti figurative; lui, sin da ragazzo, divorava i libri d’arte, e poi, al liceo, più volte scoprii che marinava la scuola per rifugiarsi agli Uffizi o a Palazzo Pitti. La sua passione andava oltre la pittura e la scultura: tutte le manifestazioni del bello lo interessavano: l’urbanistica, l’arredo delle città, l’oggettistica, l’abbigliamento. Io lo consultavo su questi temi, e ne uscivo arricchito.

La botanica. Sin da ragazzo fu un altro suo hobby. Non così per me, ma mi compiacevo del suo sapere in questa materia, e quando iniziai a creare un giardino nella nostra casa di Sicilia, gli chiesi consiglio per la scelta delle piante.

Poi c’era la storia. Piaceva ad entrambi. lo, di formazione giacobina e illuminista, amavo i grandi affreschi, prediligevo i vincitori, le culture egemoni; lui prendeva gusto alle vicende delle minoranze, in un certo senso alla «piccola storia»: i curdi, per esempio. Cercò di impadronirsi persino dei rudimenti della loro ostica lingua. Talvolta, ironizzando, gli dicevo: i curdi stiano dove sono, con la Turchia o con l’Iraq, invece di incasinare una regione già di per sé complicata con nuovi stati di minuscole etnie. Non apprezzava la mia ironia, che gli pareva dileggio verso le sofferenze di un popolo, e qualche volta si litigava. Ma era un incanto sentirlo parlare con animo partecipe delle ragioni dei curdi.

E infine i viaggi. Leone era un grande viaggiatore; io molto meno. Lui si infilava nelle situazioni più difficili dei paesi più depressi, visitati in lungo e in largo con acuto spirito di osservazione. E, al ritorno, i suoi racconti catturavano l’attenzione, e spesso suscitavano ilarità e divertimento. Anche in politica eravamo diversi. Lui non era un animale politico. Per indole, per formazione di famiglia, era un libertario con radici di sinistra. Ho ereditato la sua biblioteca e la sua discoteca: buona parte dei libri sono gli stessi che ho letto io, si rifanno alla stessa cultura; e, tra i dischi, i canti della rivolta ci sono tutti, persino qualcuno in più di quanti ne possieda io. Rifuggiva dalla disciplina che, secondo me, è richiesta da una consapevole volontà di incidere nel tessuto sociale, e detestava gli slogan e le frasi fatte cui la sinistra talvolta ricorre. E anche qui diverbi, ma anche un ritrovarsi facilmente concordi nell’amore e nell’interesse per il nostro Paese. Un patriottismo di ascendenza risorgimentale, appreso dal padre più che a scuola, che Leone manifestava nei modi più vari e impensati. Come quando scrisse (il 19 febbraio 2001, un anno prima della morte) al presidente della Repubblica Ciampi: «Delle nostre feste nazionali, non ce n’è una che trovi tutti d’accordo, per cui io propongo una FESTA DEL TRICOLORE, da celebrarsi in ricordo della scelta pura e ideale fatta dai delegati della Cisalpina il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia» – Il 26 dicembre 2002 Ciampi in effetti ha lanciato l’idea di una nuova data da inserire tra le feste da onorare: il 7 gennaio, festa del Tricolore.

Tante volte ho pensato che il diverso orientamento sessuale fosse all’origine delle nostre diversità, e più volte gliel’ho detto. Lui non escludeva questa possibilità. Ma sull’argomento abbiamo sempre sorvolato, senza tentare seriamente di approfondirlo. E poi, a che sarebbe servito?

Una vita turbolenta, la sua, «avventurosa» diceva Leone, tra l’amaro e il compiaciuto. E che non gli impedì di fare la sua parte di professore apprezzato e di vivere dignitosamente con quanto guadagnava, riducendo al minimo i bisogni che considerava superflui (non ebbe mai un’automobile, né un telefonino) e dedicando ai viaggi quanto riusciva a risparmiare.

Per parecchi anni insegnò italiano all’estero, sia in scuole italiane che straniere. L’International School di Yanbu (Arabia Saudita) gli rilasciò un attestato di particolare benemerenza: aveva «inventato» un metodo che accelerava l’apprendimento della nostra lingua, e creato tra gli studenti un clima tale che nessuno di essi aveva abbandonato il corso, com’era successo negli anni precedenti in quella scuola.

Ripetutamente lo invitai a scrivere qualcosa, magari da lasciare chiusa in un cassetto per i posteri. Mi rispondeva con un sorriso che voleva dire: sì, è vero, potrei raccontare tante cose, ma non lo farò. Solo nel tardo autunno del 2001, pochi mesi prima della fine (è morto il 17 aprile 2002) ha fatto conoscere i componimenti. poetici che ora pubblichiamo nella prima parte di questo volumetto.

Leone ha scritto dell’altro. Ma solo a questi tredici componimenti ha affidato il suo «testamento», e perciò questi abbiamo deciso di stampare col titolo da lui scelto. Tuttavia, di altre due poesie, ancorché non incluse nel «testamento», mi piace conservare la memoria, e perciò ho deciso di collocarle in appendice.

Si tratta di vera poesia? Gli esperti quasi sicuramente diranno di no. Ma a me la questione sembra priva di interesse: le cose che dice e gli stati d’animo che esprime mi paiono degni d’attenzione. Perciò ritengo che pubblicarli non costituisca solo un atto d’amore o un semplice omaggio alla memoria. (Gli stessi sottotitoli, che Leone ha indicato in premessa a mo’ di spiegazione, e che ho voluto riportare sotto ogni titolo, costituiscono una sorta di manifesto, e danno un senso coerente al tutto).

Le prime due sono poesie d’amore che ho letto con commozione. L’incipit della prima mi ha fatto riandare ai miei anni di liceo: anch’io nell’intervallo delle lezioni mi affacciavo alla finestra per guardare le ragazze, e l’ho raccontato in un mio libro di ricordi, soffermandomi sui sentimenti che provavo. lo ho potuto descrivere quelle sensazioni quasi gloriandomene. Lui provava analoghi sentimenti, ma al posto delle ragazze c’erano i carabinieri.

Nella terza poesia, «Selinunte», oltre all’amore, si affacciano nuovi protagonisti: la bellezza, la Grecia, il Mediterraneo. Stilemi che aveva assorbito in casa e che ha rivestito di fresco entusiasmo. La quarta, «Inno a Colonia», è un omaggio alla «sua» Germania, e in particolare alla città dove forse ha vissuto gli anni più felici.

La quinta, «A cu’ apparteni?», è una delle più struggenti. La traduzione letterale del titolo è: «A chi appartieni»; ma in dialetto l’espressione sta per: «A quale ceppo familiare appartieni» o, per estensione: «A quale comunità appartieni». Leone riferisce il testo al suo distacco dalla Sicilia, ma la frase aggiunta «lettere di mio padre» risulta criptica, o quanto meno poco chiara. Evidentemente un nesso nella sua testa doveva esserci, ma non è esplicito. In ogni caso il componimento è un grido d’amore per il paese d’origine

paese di mio padre e dei miei avi,

fantasma in certe notti insonni

in giro per il mondo,

sei nel mio sangue e nella mia memoria.

al quale subentra il dichiarato (ma sarà poi vero?) rifiuto della nuova Sambuca, avvilita da un consumismo straccio ne e da un’edilizia «libanese», una periferia nella quale arrivano le briciole della mensa di un ricco sistema economico.

La sesta, «Spagna, un delirio», è un’invocazione alla speranza: benché nel sottotitolo dichiari «l’impossibilità di un nuovo inizio», negli ultimi due versi esplode la voglia di vita

Salpa, nave di luce e di bellezza,

verso nuove speranze e nuova vita.

La nave evocata è il Museo Guggenheim di Bilbao, la cui forma, bizzarra e singolare, gli suggerì la similitudine della nave attraccata sulle sponde del Nervión. Spinto dai versi di Leone e dalla curiosità per il noto monumento, mi sono recato con le mie sorelle a Bilbao, e a lungo ci siamo soffermati ad osservare ammirati l’insolito edificio. In effetti, specie da alcuni angoli visuali, la mirabolante costruzione di Gehry somiglia a una nave. E m’è piaciuto pensare che mio fratello avesse invocato quel «magico scafo», rivestito di titanio, di portarlo via, «verso nuove speranze e nuova vita». Sono certo: si è immaginato nascosto e protetto dentro la pancia di quella nave, che ospita un bel museo, come nascosto e protetto si era sentito dentro gli Uffizi o dentro Palazzo Pitti quando, suscitando la mia ira, marinava A liceo G. Galilei di Firenze.

La settima, «A mia madre», è un addio alla madre, principale punto di riferimento emotivo (oh, Pasolini!).

L’ottava, «Jerusalern – Al Qods», è una presa di posizione ideologica contro l’intolleranza e l’odio.

Con la nona, «Una giornata di scazzo», Leone riprende i temi della disperazione: nella sesta aveva detto: «l’impossibilita di un nuovo inizio»; ora ribadisce: «l’incapacità assoluta di riorganizzare». Poi, con la decima, «Le giovani donne di Milano», avviene una rottura, mal comprensibile, tanto più che a questo componimento non ha dato un sottotitolo: quasi una divagazione. Eppure l’ha inserita nei tredici componimenti, al decimo posto. Peccato non avergli potuto chiedere il perché di questa collocazione.

In «Mare Nero», l’undicesimo componimento, torna il pessimismo, stimolato da terre che i greci consideravano «sconosciute e misteriose»: «Quasi un congedo dalla vita», dice nel sottotitolo.

Nella dodicesima, «Yazd», riprende A tema dell’amore sensuale e disperato ad un tempo. E anche qui non ho fatto a tempo a chiedergli perché aveva voluto questa progressione saltellante. lo avrei raggruppato i componimenti per argomento. Lui ha seguito un altro criterio, che non emerge.

Ed arriviamo all’ultima, la tredicesima: «Vita», l’epilogo. In poche strofe c’è il suo mondo affettivo, la sua condizione esistenziale. Nella prima strofa l’amara consapevolezza che «tutto è scorso e se n’è andato via», accompagnata dalla orgogliosa rivendicazione che «ogni cosa ha un senso e un suo perché». Nella seconda affiora l’educazione ricevuta, la mitologia di famiglia: «ben salde nella terra le radici». Quindi il ricordo degli ulivi che il padre curava e continuava a piantare fino a poche settimane prima di andarsene: ben salde nella terra le radici. Quei due versi, aggiunti con una spaziatura

Chissà come stanno

gli ulivi di mio padre.

che sembrano spuntare all’improvviso, hanno, per i familiari, una straordinaria forza evocativa. Agli inizi di marzo 1970, nostro padre fu colpito da una gravissima forma di itterizia che in poche settimane lo avrebbe condotto alla tomba. In quei giorni a Sambuca un uliveto stava Per essere invaso dalle acque di un lago artificiale. Si trattava di alberi già adulti, ma nostro padre, pur malato, pur giallo come un limone, s’impegnò ugualmente a recuperarli, organizzando una complessa operazione di trapianto per ricollocarli nel suo uliveto. Quando arrivai in paese, attorno al 20 di marzo, per trasportarlo in ospedale a Firenze, in molti mi raccontarono di questa sua ultima «prodezza». Glielo dissi, e lui se ne compiacque. Da qui l’idea, lui morto, di incidere su una lapide, a mo’ di epitaffio, i bellissimi versi di Nazim Hikmet… m>Devi vivere con tanta dignità

da potere, a settant’anni,

piantare un albero d’olivo,

non perché

un giorno sia dei tuoi nipoti,

ma perché, avendo paura di morire

tu non credi nella Morte,

perché

la vita trabocca.

e ci sembrò naturale affiggere la lapide su una parete della vecchia terrazza di casa. A tutto questo avrà sicuramente pensato Leone quando gli scappano dalla penna, al termine della seconda strofa, i due versi: Chissà come stanno/gli ulivi di mio padre.

Tornando al componimento, nella terza strofa trasuda ancora l’amore per la madre. Il dialetto rende i versi più incisivi. Sono sette versi cosi espressivi da rendere forse superfluo il precedente componimento «A mia madre.

La quarta strofa torna sui concetti della prima, esprimendoli in modo diverso, ma con lo stesso ormai rassegnato approccio. Nella quinta c’è la storia della nostra famiglia, la famiglia di Tommaso Amodeo, siciliano di Sambuca, classe 1897, geometra, antifascista militante, sognatore coi piedi per terra, come le radici dei suoi ulivi. Il t.itolo della raccolta, «Nuvole in viaggio», e lo pseudonimo «Arcadio» – Nel dattiloscritto che Leone ci ha lasciato lo pseudonimo «Arcadio» compare tra parentesi, sulla copertina, sotto il nome e cognome – sono stati scelti da Leone, dopo averci pensato a lungo, ritengo. Le nuvole si compongono, si scompongono, si sciolgono in acqua, si ricompongono e vagano in cielo: lunghi viaggi, prima di sfioccarsi ancora e tornare a ricomporsi. Simile a quella delle nuvole dovette sembrargli la sua vita alla vigilia della morte.

«Arcadio», lo pseudonimo, riflette uno stato d’animo non infrequente tra gli omosessuali: il rimpianto per una civiltà contadina che si presume più permissiva e tollerante per i «diversi». Una volta Leone mi disse, parlando degli Stati Uniti: una cosa in quel paese non mi piace: nella pubblicità c’è sempre una coppia a presentare i prodotti, una coppia ossessivamente composta da un maschio e da una femmina, sorridenti e felici. Del resto, in Pasolini, la nostalgia per la società preindustriale affiora continuamente e trova la sua poetica rappresentazione nel rimpianto per un mondo nel quale le lucciole c’erano ancora.

. .

TORNA SU . . . . . . . . . .

.
.
.
.
.
.
.
.
.
.

.
.
.
.
.
.
.
.
.
.

Immagini collegate: